FREE FALL JAZZ

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Che siate fan terminali dell’uomo o semplici appassionati di jazz in generale, il museo dedicato a Louis Armstrong a New York (a Corona, frazione nel nord del quartiere Queens, per la precisione) resta una meta imperdibile, seppur non dietro l’angolo, per il miglior “turismo musicale”.

Allestito nella casa di mattoni in cui per 28 anni, dal 1943 al 1971, il trombettista ha vissuto con la moglie Lucille, il museo esibisce una gran quantità di memorabilia e al contempo lascia intatti gli interni, evitando di modificare l’arredamento e la configurazione delle stanze (la cucina color turchese che vi proponiamo qui sopra resta forse l’immagine più famosa). (Continua a leggere)

Che ogni scusa sia buona per dedicare un po’ di spazio a Bill Cosby ormai lo avrete capito. Come spiegavamo qualche mese fa, l’ex Dottor Robinson continua a girare in tour per l’America con i suoi spettacoli di stand up comedy. Proprio questa sera ne terrà uno, un benefit, presso il SFJazz Center: si tratta della nuova sala da concerti della SFJazz Organization di, appunto, San Francisco, nella quale Bill Cosby ha presentato la serata di inaugurazione lo scorso Gennaio. In occasione di questo nuovo appuntamento, lo showman americano ha rilasciato un’interessante intervista “a tema jazz” sulle pagine di MercuryNews nella quale spazia in lungo e in largo tra passato e presente, cercando persino di argomentare il suo supporto alla controversa campagna di Nicholas Payton per sostituire il termine “jazz” con la definizione “black american music”. Di seguito ve ne proponiamo la traduzione in italiano.

Parlaci di qualcuno dei tuoi musicisti preferiti.
Miles ce l’ho nel cuore, così come Philly Joe Jones. E anche Freddie Hubbard: lo amavo. Amavo quel che pensava e ciò che stava cercando di fare. Ho sempre pensato che se non avesse bruciato le sue capacità sarebbe potuto diventare per la tromba ciò che Coltrane rappresenta per il sax tenore.  (Continua a leggere)

Fa caldo. Fa molto caldo. Di più: mentre scrivo queste righe mi sembra di vivere in un loop continuo i primi 5 minuti di ‘Weekend Con Il Morto’, con Andrew McCarthy e quell’altro che letteralmente si squagliano sotto i colpi di un’estate newyorkese con tassi di umidità da strozzinaggio. Il ventilatore alle mie spalle soffia ormai aria calda, e il mio unico desiderio sarebbe accendere la TV sulle previsioni del tempo e sperare che annuncino l’imminente arrivo del diluvio universale. O anche solo di una grandinata a pallettoni.

Il tutto ci porta indirettamente alla storia che stiamo per raccontare. (Continua a leggere)

I dottori ancora non si fidano a lasciarmi andare. Dicono che quello che ho scritto sul Festival finora è un buon passo avanti, ma non basta. Dicono che devo sputare il rospo bello intero… come una lavanda gastrica… dicono che è meglio se scrivo ancora. Dicono…

5 Luglio, Milano. Mi alzai prestissimo quella mattina. I postumi di una serata in birreria fecero rimbombare il trillare molesto della sveglia dentro la cassa cranica come se un neurone, ormai solitario e sconsolato, avesse suonato un gong gigante. Era l’alba… bisognava partire presto, evitare orari di punta e quindi il traffico e ingorghi vari; insomma, una partenza intelligente… Dopo due ore di coda sull’A1 mi sentii molto stupido.

Il mitico pandino, scalò il passo del Gran San Bernardo in gran scioltezza. Su su su e poi giù giù giù, diretti verso il Montreux Jazz Festival. (Continua a leggere)

Vent’anni fa, tra il 23 e il 24 Giugno del 1993, si spegneva a soli 36 anni l’altosassofonista capitolino Massimo Urbani. Nonostante il comprovato talento, in vita aveva raccolto meno del dovuto, e anche nei primi anni successivi alla sua scomparsa sembrava destinato a rimanere culto per pochi eletti. Un prestigioso premio per giovani jazzisti venne istituito in suo nome nel 1996, e fu il primo passo di una progressiva riscoperta della sua figura, spesso mitizzata e accostata con leggerezza a quella di Charlie Parker. Di certo l’influenza di quest’ultimo è stata importantissima per la musica di Urbani, che per giunta, proprio come Parker, se n’è andato giovanissimo dopo qualche eccesso di troppo, ma, tolto ciò, parliamo di altri posti, altre epoche, altro tutto. Ben venga comunque questa sorta di “mitizzazione” se può rivelarsi utile al recupero della musica vera e propria: meglio tardi che mai verrebbe da dire. (Continua a leggere)

Se scendi alla metro di Finsbury Park, proprio lì di fronte vedrai l’insegna del Silver Bullet. Mo’ non ricordo che giorno, ma di sicuro lì fanno le jam… Ma mica solo di jazz, anche rock ed “International” (che non so che significa. Forse Pop internazionale… Mah). E come suonano! Bravi davvero. E soprattutto una bella atmosfera da far sentire a casa anche dei terroni provinciali come noi: quelli della “banda del fungo”, gli Amanita. Saliti con i potenti mezzi della Ryanair dalle rive del Crati su su fino al Tamigi per tre date all’ombra del Big Sdeng! Ah… Non si chiama così?? A dirigere le Jam session di jazz al Silver Bullet c’è un tizio di colore alto e robusto, con la faccia scavata dalla vita, di quelli che sembrano burberi, ma col cuore d’oro (moooolto in fondo), capelli “arràsta” fino al culo e un sax tenore tra le labbra: lui presenta con scioltezza, invita i musicisti prenotati ad esibirsi e dirige le cose solo quando è necessario. (Continua a leggere)

Tra pochi giorni, per la precisione il 15 e il 16 Giugno, sul palco dell’Hollywood Bowl di Los Angeles sfileranno, come di consueto, gli artisti dell’edizione 2013 del Playboy Jazz Festival. Rispetto agli altri anni, però, mancherà lo storico presentatore. Bill Cosby, in carica nel ruolo dal 1979, lo scorso anno ha deciso di farsi da parte: al suo posto ci sarà George Lopez (voce di Puffo Brontolone nei film americani, tra le altre cose). “Il signor Cosby mi ha dato la sua benedizione - spiega - Mi ha chiesto di essere presente, attento e di dare il giusto riconoscimento ai musicisti che si distinguono per le migliori performance, ma anche di dar loro una mano a trascinare lo show e intrattenere la gente. Credo di potercela fare”. (Continua a leggere)


“Quale musica può rappresentare il mondo contemporaneo? Senza dubbio dovrebbe essere una musica moderna, una musica che affonda le sue radici nella realtà quotidiana, che rende conto dei rivolgimenti sociali e del fatto che la gran massa del pubblico non sa che farsene della musica. Nello stesso tempo dovrebbe anche — come ogni verità — avere qualcosa di sensazionale, e a tal fine basterebbe che questa musica non fosse falsa, come lo è invece quella che circola ora nella vita culturale, che impone al pubblico falsi sentimenti e relazioni, e costituisce un perenne ostacolo ai rapporti fra l’uomo e il suo tempo”. (Fred K. Prieberg, Musica Ex Machina, Berlino, 1960)

Questa domanda, posta all’apertura del sito di Setola di Maiale, è anche parte del manifesto estetico di Stefano Giust e Paolo De Piaggi, menti dell’etichetta nata nel 1993 dalla loro necessità di creare musica non vincolata alle logiche di mercato, nonché per dare la possibilità ad artisti al di fuori del circuito “istituzionale” della musica di dare corpo alle proprie ricerche non disperdendo il lavoro fatto. Eh sì, perché Setola non riguarda solo i musicisti di estrazione prevalentemente jazzistica, ma anche della musica contemporanea nell’accezione più ampia del termine, come evidenziato nella pagina web di apertura: musica improvvisata, sperimentale, elettronica. Mi viene in mente solo un’altra etichetta che, coraggiosamente, negli anni ’70 propose un catalogo così impegnativo: la ICTUS di Andrea Centazzo. (Continua a leggere)

Tutto sommato è facile parlare di Prince: tiri fuori uno dei tanti dischi belli e via in quarta con elogi e superlativi. Una produzione multiforme e composita la sua, che tra funk, rock, soul e r&b di tanto in tanto porta a galla anche qualche legame con la musica che trattiamo su queste pagine: inevitabile, verrebbe da pensare, visto che suo padre, John L. Nelson, era un pianista jazz e, da buon classe 1915, alla guida del Prince Rogers Trio si è goduto tutta l’epoca d’oro del genere, pur senza mai riuscire a ritagliarsi un posto davvero importante, nemmeno in seconda fila.

La prima volta che il principe di Minneapolis incrocia seriamente la strada del jazz, le circostanze sono abbastanza clamorose e lo vedono in coppia nientemeno che con Miles Davis. Il pezzo si chiama ‘Can I Play With U’: dovrebbe finire su quello che diventerà il non esattamente eccelso ‘Tutu’, ma viene escluso dalla scaletta finale. È un ottimo, vigoroso electro-funk arricchito con naturalezza dalla tromba di Miles, e non avrebbe sfigurato sul di poco successivo ‘Sign O’ The Times’: a ragione, Prince lo ritiene non in linea con il blocco di pezzi preparati da Marcus Miller per il disco di Davis e chiede la sua esclusione. Vedrà la luce solo su un popolare bootleg intitolato ‘Crucial’, ma avrebbe meritato sorte migliore. (Continua a leggere)

L’abbiamo apprezzata sul grande schermo in pilastri della nostra esistenza come ‘Breakfast Club’, ‘Pretty In Pink’ e ‘Sixteen Candles’ (di questi ultimi due lasciamo i titoli originali, che suonano di certo meglio di quelli adottati qui da noi), l’abbiamo stimata perchè se la faceva con AD Rock dei Beastie Boys, altro figuro degno di profondo rispetto, e da oggi per ammirarla abbiamo anche un motivo in più. “Sono cresciuta in una casa in cui girava tanta musica - dichiara l’attrice americana in un articolo riportato da All About Jazz – E ho apprezzato il jazz sin da tenera età perchè mio padre faceva il musicista e suonava proprio quel genere. Già da quando avevo tre anni iniziai a cantare con la sua band e sui suoi dischi, e da allora il jazz è rimasta una delle tre più grandi passioni della mia vita assieme alla recitazione e  alla scrittura. Per me è come il ‘comfort food‘: è sempre al jazz che mi rivolgo, quando ho voglia di tornare alle origini”(Continua a leggere)

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