FREE FALL JAZZ

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Nell’accogliente sala del Teatro del Gavitello il pubblico italiano ha potuto assistere ad una prima di assoluta rilevanza. Non solo Devin Paglianti viene per la prima volta in Italia, ma lo fa presentando in esclusiva un suo personalissimo, inedito progetto destinato a squadernare per sempre i meandri della musica per come la comprendiamo oggi. Le usuali dicotomie scritto-improvvisato, intenzionale-casuale infatti sono annullate interamente nel suo rivoluzionario The Tombola Conduction. (Continua a leggere)

Dopo i primi due entusiasmanti capitoli dell’opera ‘Coin Coin’, Matana Roberts decide di attuare un importante (e tutto sommato, imprevisto) cambio di rotta stilistico per la registrazione del terzo episodio della saga.

Fin dai primi secondi, l’aspetto più evidente nella musica di ‘River Run Thee’ (questo è il titolo scelto per il nuovo album) è infatti la lontananza dal linguaggio canonico del jazz, che nei due precedenti ed esaltanti lavori costituiva invece l’elemento fondante e principale da cui la Roberts ripartiva per l’elaborazione della sua poetica personale. Non vi sono più ensemble più o meno vasti a supportare la musicista: per tutta la durata del disco si ascoltano solo qualche field recording, la voce della Roberts e il suo sassofono, comunque sottoposto a un processo di metamorfosi e di snaturalizzazione che rende solo una minoranza dei suoi interventi riconducibili a un approccio classico allo strumento (il suo suono viene alimentato da mini synth, oppure acquista riverbero naturale grazie all’utilizzo del rivestimento rotto di un pianoforte, o ancora viene registrato piazzando i microfoni in particolari angoli della stanza per coglierne diverse sfumature). (Continua a leggere)

I Free Nelson Mandoomjazz sono un trio scozzese (Rebecca Sneddon al sassofono alto, Colin Stewart al basso e Paul Archibald alla batteria) che dal 2013, anno della formazione e delle prime registrazioni della band, si è prefissato un obiettivo ben preciso: trovare un punto di contatto tra il jazz e il doom metal.

Già i due EP pubblicati all’epoca lasciavano ben pochi dubbi sull’approccio del gruppo alla materia musicale: gli espliciti riferimenti nei titoli (‘The Shape of Doomjazz to Come’ e ‘Saxophone Giganticus’) e nelle copertine (che rivisitavano quelle dei classici “sbeffeggiati” sostituendo a Ornette Coleman e a Sonny Rollins la figura incappucciata della Sneddon, chiaramente omaggiando i Sunn O)))) ostentavano quel tipo di umorismo vagamente dissacrante di stampo Mostly Other People Do the Killing, mentre i brani accoppiavano una granitica base ritmica di scuola doom, con tanto di basso pesantemente distorto, ai volteggi pirotecnici del sassofono che strizzavano l’occhio all’ala più sperimentale e oltranzista del free jazz. A parte il fattore sorpresa per il connubio non usuale, comunque, non c’è molto da segnalare, vista anche l’immaturità con cui viene realizzato tale crossover stilistico. (Continua a leggere)

Il batterista statunitense Dan Weiss (4 marzo 1977) è attualmente uno dei musicisti emergenti più promettenti del panorama del nuovo jazz. Dopo aver collaborato con alcuni dei più quotati jazzisti contemporanei (quali Rudresh Mahanthappa, David Binney e Rez Abbasi), Weiss si è fatto notare dalla critica specializzata per il suo approccio batteristico innovativo, dovuto ai suoi studi decennali della tabla e della musica classica indiana con il virtuoso Pandit Samir Chatterjee, dissezionato ampiamente in lavori come ‘Tintal Drumset Solo’ e ‘Jhaptal Drumset Solo’ (dove, accompagnato solamente dal chitarrista Miles Okazaki, proponeva materiale per tabla riarrangiato sulla batteria, rovesciando il ruolo melodico e ritmico di chitarra e percussioni) e quindi integrato in uno stile più vicino al post bop su ‘Now Yes When’ e ‘Timshel’, affiancato questa volta da Jacob Sack al piano e Thomas Morgan al basso. (Continua a leggere)

Quella di Barry Altschul e Dave Holland è una sezione ritmica straordinaria, di certo in grado di competere ad armi pari con tante coppie più “famose”. Oggi forse è meno celebrata del dovuto: aver legato il proprio nome soprattutto a formazioni di impostazione free jazz si è rivelato un grosso equivoco, a ben vedere. Altschul e Holland restano troppo grandi per poter essere incasellati in una sola nicchia, e infatti a cavallo tra ’60 e ‘70 sia in compagnia di Paul Bley (solo il batterista) che di Braxton o Corea (nel breve periodo in cui quest’ultimo formò i Circle, formazione con cui tentò di esplorare territori più o meno avanguardistici prima della ben più nota svolta fusion) hanno comunque dimostrato una versatilità che lasciava trasparire una conoscenza del panorama jazzistico a 360 gradi. (Continua a leggere)



Questo sketch di Fiorello dice più di mille analisi sullo strano rapporto fra jazz e Italia, diciamoci la verità e aggiungiamo “purtroppo”…

Tra le note di copertina, uno stralcio di recensione dell’epoca dipinge i Bass Tone Trap come “la Art Ensemble Of Chicago che suona canzoni pop scritte da Ornette Coleman”, definizione che strappa un sorriso e di sicuro incuriosisce. Piccola mosca bianca all’interno del panorama inglese, il sestetto sheffieldiano nasceva dalle ceneri degli ostici De Tian, autori di un unico EP (‘Two Spires Split’) dalle forti tendenze avanguardistiche. Concluso quel progetto, Paul Shaft (contrabbasso) e Martin Archer (polistrumentista) restarono uniti, coltivando l’intenzione di virare verso sonorità più immediate: è la genesi di una storia tanto breve quanto intensa.

‘Trapping’ viene registrato nel 1983 ed è particolare sin dalla formazione, che schiera in campo due chitarre, la sezione ritmica e due sax (uno ad opera del funambolo Derek Saw, che si cimenta anche coi clarinetti, e uno ad opera di Archer stesso, che si dedica pure ad organo e violino). La musica è una miscela di jazz, rock e funk altrettanto anomala, specie perché di albionico, pur lasciando trasparire un certo amore di fondo per i Soft Machine, ha davvero ben poco, preferendo semmai guardare oltreoceano. (Continua a leggere)

Facciamo il giro più largo e iniziamo parlando dei Nurse With Wound, sigla storica della prima ondata industrial inglese di sicuro familiare a tutti gli appassionati di sonorità rumoristiche e sperimentali. Li chiamiamo in causa per un motivo ben preciso: oltre che musicisti erano avidi consumatori di vinile, attratti in particolare da tutto ciò che presentava tratti ostici o in qualche modo avanguardistici. Erano anni – parliamo della fine dei  ’70 – in cui procurarsi un disco fuori dai canali major era roba da carbonari, toccava rivolgersi a negozi specializzati in import o azzardare audaci gite fuori porta, e leggenda vuole che Stapleton e soci organizzassero delle “spedizioni per il vinile” persino all’estero. Pare assurdo a dirsi, ma ciò spiegherebbe la loro conoscenza di entità underground sparse un po’ in tutt’Europa che all’epoca come mezzo di diffusione “alternativo” avevano al massimo il tape trading. Dei loro gruppi preferiti compilarono una sterminata lista allegata all’LP d’esordio a nome Nurse With Wound, poi riproposta (in versione aggiornata) anche sul secondo lavoro e che negli anni per molti ascoltatori (me incluso) si è trasformata in una sorta di guida alla scoperta di questo o quel nome. Se ne contano quasi 300 (!!!), e spaziano dal rock progressivo (con tanti gruppi anche italiani) al kraut, dal free jazz alla musica contemporanea fino alla primissima ondata industrial. (Continua a leggere)


“Quale musica può rappresentare il mondo contemporaneo? Senza dubbio dovrebbe essere una musica moderna, una musica che affonda le sue radici nella realtà quotidiana, che rende conto dei rivolgimenti sociali e del fatto che la gran massa del pubblico non sa che farsene della musica. Nello stesso tempo dovrebbe anche — come ogni verità — avere qualcosa di sensazionale, e a tal fine basterebbe che questa musica non fosse falsa, come lo è invece quella che circola ora nella vita culturale, che impone al pubblico falsi sentimenti e relazioni, e costituisce un perenne ostacolo ai rapporti fra l’uomo e il suo tempo”. (Fred K. Prieberg, Musica Ex Machina, Berlino, 1960)

Questa domanda, posta all’apertura del sito di Setola di Maiale, è anche parte del manifesto estetico di Stefano Giust e Paolo De Piaggi, menti dell’etichetta nata nel 1993 dalla loro necessità di creare musica non vincolata alle logiche di mercato, nonché per dare la possibilità ad artisti al di fuori del circuito “istituzionale” della musica di dare corpo alle proprie ricerche non disperdendo il lavoro fatto. Eh sì, perché Setola non riguarda solo i musicisti di estrazione prevalentemente jazzistica, ma anche della musica contemporanea nell’accezione più ampia del termine, come evidenziato nella pagina web di apertura: musica improvvisata, sperimentale, elettronica. Mi viene in mente solo un’altra etichetta che, coraggiosamente, negli anni ’70 propose un catalogo così impegnativo: la ICTUS di Andrea Centazzo. (Continua a leggere)

Grazie all’instancabile Jacqueline, organizzatrice di queste serate dedicate agli artisti svizzeri, ho avuto la fortuna di ascoltare una delle più famose suonatrici di pipa (segaioli non pensate subito a quello!), uno strumento a corde della tradizione millenaria cinese. La Yang, che ha anche collaborato con Pierre Favre, noto improvvisatore svizzero, ha dato a questo strumento una nuova vita. Pensavo di andare ad ascoltare musica di sottofondo dei ristoranti cinesi, e invece la creatività dei due a dato luogo a un concerto dei più interessanti, tra quelli che ho seguito. Christy Doran,  chitarrista con un passato tra rock, jazz, prog e chi più ne ha più ne metta, ha creato un perfetto interplay con la Yang, non sovrastandola con volumi di suono, ma accompagnandola in maniera discreta e sostanziosa. Una musica fondamentalmente rilassata, che prende spunto soprattutto dalla tradizione cinese, ma le variazioni create dai due la portano a livelli completamente differenti. (Continua a leggere)