Dall’ultimo ‘Vista Accumulation’ del 2015, Matt Mitchell non ha avuto un attimo di tregua. Ha suonato sui dischi pubblicati recentemente da Dan Weiss (il deludente ‘Sixteen: Drummers Suite’ del 2016), Steve Coleman (l’intrigante ‘Morphogenesis’, uscito quest’anno) e Tim Berne (‘Incidentals’, edito a settembre per ECM), tra gli altri; e solo a marzo pubblicava ‘FØRAGE’, una sua personale – ma prescindibile – rilettura in solo piano di alcune composizioni proprio di Tim Berne, volta ad omaggiare uno dei più importanti ascendenti sulla sua crescita musicale.
A settembre Mitchell è tornato quindi con il suo terzo effettivo full-length da leader, come al solito edito dalla Pi, intitolato ‘A Pouting Grimace’. Distanziandosi dalle formazioni ridotte dei suoi lavori precedenti, Mitchell questa volta si circonda di alcuni dei più dotati musicisti della scena avant-jazz americana contemporanea – dai classici collaboratori Dan Weiss e Ches Smith a Sara Schoenbeck, Jon Irabagon e Anna Webber, scomodando anche Tyshawn Sorey (cui è affidato il prestigioso ruolo di direttore del complesso) –, organizzandoli in complessi dall’estensione variabile tra i cinque e i tredici elementi. (Continua a leggere)
Dopo che l’ambiziosissimo ‘The Inner Spectrum of Variables’ ha confermato l’attenzione e la curiosità che gli addetti ai lavori prestano all’opera di Tyshawn Sorey (tra gli altri, anche il prestigiosissimo Alex Ross ha parlato favorevolmente del suo esotico connubio di composizione accademica e improvvisazione jazz), per il musicista del New Jersey si è aperto un florido periodo di attività . Nel 2016, è stata la volta di ‘Josephine Baker: A Portrait’, la cui premiere al Lincoln Center’s Mostly Mozart Festival si è guadagnata il plauso della critica: il New York Times si è sbilanciato definendolo “uno dei lavori più importanti emersi nell’epoca del Black Lives Matter’, riferimento non casuale visto che proprio per celebrare tale movimento gli è stato commissionato un ciclo di canzoni (che vedrà il suo debutto all’Opera di Philadelphia e al Carnegie Hall nel 2018). (Continua a leggere)
Qualche anno fa ‘Injuries’, esordio degli svedesi Angles 9, aveva attirato l’attenzione di diversi tra gli addetti ai lavori che si erano sprecati in elogi e in paragoni altisonanti (tra gli altri: Duke Ellington, Charles Mingus e Carla Bley) per via di una originale declinazione in chiave moderna e post-free della musica per big band. Su queste pagine avevamo corretto il tiro: non si trattava di un miracolo di orchestrazione per ensemble allargato di musica jazz contemporanea, bensì di un amatoriale quanto fallimentare tentativo di estendere le forme della scuola avant-jazz europea a un combo di nove elementi (due sassofoni, una cornetta, una tromba, un trombone, un pianoforte, un basso, una batteria e un vibrafono).
Quest’anno è la volta di ‘Disappeared Behind the Sun’, pubblicato il 17 gennaio ancora una volta dalla Clean Feed (il cui catalogo troppo spesso vanta discutibili esperimenti eseguiti con pochissima competenza e creatività ), e ancora una volta i limiti della musica degli Angles 9 (la cui line up è rimasta invariata dai tempi di ‘Injuries’) si rivelano invalicabili. L’idea di fondo è molto semplice: mentre pianoforte, basso e batteria procedono su un sostenuto passo jazz-funk, abbellito dagli arrangiamenti del vibrafono, i cinque fiati ora tessono le idee melodiche portanti dei brani, ora si cimentano in lunghe sezioni solistiche corali. (Continua a leggere)
Che Steve Lehman fosse un artista estremamente eterodosso si era capito già da tempo: il suo passato come studente di Anthony Braxton e Jackie McLean, insieme a una mole di ascolti eterogenei che spaziano dagli A Tribe Called Quest a Harry Partch, l’hanno portato nell’ultimo decennio a coniare un idioma originale e innovativo che rielabora l’avant-jazz alla luce della sua personale teoria compositiva dell’M-base. A questo si era aggiunto, negli ultimi eccellenti ‘Travail, Transformation, and Flow’ (2009) e ‘Mise en Abîme’ (2014), uno studio sulle possibilità di adottare le tecniche compositive dello spettralismo alla musica jazz, con risultati ulteriormente esotici. (Continua a leggere)
Il batterista Tyshawn Sorey è ormai da diverso tempo un musicista di spicco nel roster della Pi Recordings. Nonostante il suo primo disco da leader per questa label, ‘Oblique – I’, sia stato pubblicato solo nel 2011, è infatti da oltre dieci anni che Sorey presta le sue doti (che l’anno scorso gli sono valse anche il titolo di “rising star drummer” secondo il Down Beat Critics’ Poll) per diversi lavori nel catalogo Pi, suonando con jazzisti affermati e celebrati come Vijay Iyer, Steve Coleman e Steve Lehman.
Due anni fa ‘Alloy’ (per la verità non riuscitissimo), registrato in trio con Christopher Tordini (contrabbasso) e Corey Smythe (pianoforte), aveva cominciato a mostrare il radicato interesse di Sorey per una musica continuamente in bilico tra jazz e musica classica. Spingendosi ancora oltre, il nuovo ‘The Inner Spectrum of Variables’ amplia esponenzialmente lo spettro d’azione: di nuovo accompagnato da Tordini e dalla Smythe, questa volta Sorey recluta anche un violino (Chern Hwei Fung, primo violinista del Sibelius String Quartet), una viola (Kyle Armbrust dell’International Contemporary Ensemble) e un violoncello (Rubin Kodheli, che vanta collaborazioni tanto con Laurie Anderson e Meredith Monk quanto con Dave Douglas e Henry Threadgill). Con questo esotico formato del doppio trio, Sorey può quindi dare completo sfogo alla sua ambizione e creatività : ‘The Inner Spectrum of Variables’ è infatti un’unica, pantagruelica composizione di quasi due ore suddivisa in sei movimenti (tra i quali si trova incastonata anche una spettrale reverie di quindici minuti), sviluppata nei mesi a partire da maggio 2015 e registrata in una singola sessione di quindici ore. (Continua a leggere)
Dopo l’acclamazione quasi unanime dei due full-length usciti a nome Fire! Orchestra, il sassofonista norvegese Mats Gustafsson rispolvera la sigla Fire! per esibirsi nuovamente nel più ristretto e tradizionale formato del trio, accompagnato da Johan Berthling (basso) e Andreas Werliin (batteria). Pubblicato a tre anni dall’ultimo ‘Without Noticing’, ‘She Sleeps, She Sleeps’, come sempre edito dalla sua Rune Grammofon, ne rivela però crudelmente la disarmante debolezza e incompetenza nell’ambito strettamente jazzistico. A ben vedere, da sempre gli episodi più notevoli della sua discografia (non ultimi i dischi per la Fire! Orchestra) hanno più a che vedere con l’iconoclastia e con lo scardinamento della tradizione, perpetrato per mezzo di arditi crossover stilistici con rock, psichedelia, noise e musica sperimentale di sorta, piuttosto che con un’effettiva padronanza del linguaggio jazz in sé e per sé. (Continua a leggere)
Matt Mitchell, nonostante abbia esordito solo nel 2013 con Fiction, pubblicato dalla Pi Recordings in duo con Ches Smith, è già da anni uno dei pianisti più celebrati e richiesti nella scena avant-jazz americana. Grazie a una notevole preparazione tecnica e accademica (tra i vari impegni, è anche insegnante in diverse scuole di New York come la School for Improvisational Music e la New School), sono diversi i musicisti che si sono avvalsi del suo talento: il suo curriculum vanta collaborazioni con personaggi come Tim Berne. Dave Douglas, Kenny Wheeler e David Torn, la partecipazione ad alcuni dei dischi più notevoli del jazz contemporaneo (come ‘Fourteen’ di Dan Weiss l’anno scorso e ‘Bird Calls‘ di Rudresh Mahanthappa, candidato fin dalla sua uscita a inizio anno ad essere una delle release jazz migliori del 2015), e perfino un fugace flirt con la band avant-prog Thinking Plague (con cui ha suonato su A History of Madness del 2003). Proprio per questo, stupisce relativamente che la sua seconda prova da leader con il doppio album ‘Vista Accumulation’ (pubblicato nel 2015 dalla Pi Recordings, che si conferma nuovamente come una delle label più importanti degli anni Dieci nell’ambito jazz) mostri una visione di insieme così ampia e profonda. (Continua a leggere)
Konrad “Conny” Plank è un personaggio rinomato tra l’audience più alternativa della musica rock. È infatti alle sue doti come produttore e ingegnere del suono che si devono alcuni dei più importanti dischi del krautrock anni Settanta (tra i più famosi musicisti che si sono avvalsi spesso del suo talento vanno annoverati almeno NEU!, Kraftwerk, Cluster e Ash Ra Tempel), così come alcuni dei lavori che definirono la new wave e la musica elettronica tra gli anni Settanta e Ottanta, come Before and After Science e Music for Airports di Brian Eno, il debutto dei Devo e Vienna degli Ultravox.
I suoi rapporti con il jazz non sono stati altrettanto stretti, anche se proprio Nipples di Peter Brötzmann e The Living Music di Alexander von Schlippenbach furono i primi dischi cui abbia collaborato dietro le quinte nella sua carriera ventennale.
Proprio per questo, l’annuncio dato a inizio anno dall’etichetta Grönland riguardo l’esistenza di alcune registrazioni dell’orchestra di Duke Ellington dovute a Plank (risalenti all’estate 1970, rappresentando quindi il suo ultimo contributo in ambito jazz prima di concentrarsi sulla scena rock tedesca) ha suscitato un discreto clamore, anche per via di una notevole curiosità su cosa potesse saltare fuori da tali nastri vista la lontananza stilistica tra i due pesi massimi coinvolti. (Continua a leggere)
Dopo i primi due entusiasmanti capitoli dell’opera ‘Coin Coin’, Matana Roberts decide di attuare un importante (e tutto sommato, imprevisto) cambio di rotta stilistico per la registrazione del terzo episodio della saga.
Fin dai primi secondi, l’aspetto più evidente nella musica di ‘River Run Thee’ (questo è il titolo scelto per il nuovo album) è infatti la lontananza dal linguaggio canonico del jazz, che nei due precedenti ed esaltanti lavori costituiva invece l’elemento fondante e principale da cui la Roberts ripartiva per l’elaborazione della sua poetica personale. Non vi sono più ensemble più o meno vasti a supportare la musicista: per tutta la durata del disco si ascoltano solo qualche field recording, la voce della Roberts e il suo sassofono, comunque sottoposto a un processo di metamorfosi e di snaturalizzazione che rende solo una minoranza dei suoi interventi riconducibili a un approccio classico allo strumento (il suo suono viene alimentato da mini synth, oppure acquista riverbero naturale grazie all’utilizzo del rivestimento rotto di un pianoforte, o ancora viene registrato piazzando i microfoni in particolari angoli della stanza per coglierne diverse sfumature). (Continua a leggere)
I Free Nelson Mandoomjazz sono un trio scozzese (Rebecca Sneddon al sassofono alto, Colin Stewart al basso e Paul Archibald alla batteria) che dal 2013, anno della formazione e delle prime registrazioni della band, si è prefissato un obiettivo ben preciso: trovare un punto di contatto tra il jazz e il doom metal.
Già i due EP pubblicati all’epoca lasciavano ben pochi dubbi sull’approccio del gruppo alla materia musicale: gli espliciti riferimenti nei titoli (‘The Shape of Doomjazz to Come’ e ‘Saxophone Giganticus’) e nelle copertine (che rivisitavano quelle dei classici “sbeffeggiati” sostituendo a Ornette Coleman e a Sonny Rollins la figura incappucciata della Sneddon, chiaramente omaggiando i Sunn O)))) ostentavano quel tipo di umorismo vagamente dissacrante di stampo Mostly Other People Do the Killing, mentre i brani accoppiavano una granitica base ritmica di scuola doom, con tanto di basso pesantemente distorto, ai volteggi pirotecnici del sassofono che strizzavano l’occhio all’ala più sperimentale e oltranzista del free jazz. A parte il fattore sorpresa per il connubio non usuale, comunque, non c’è molto da segnalare, vista anche l’immaturità con cui viene realizzato tale crossover stilistico. (Continua a leggere)