FREE FALL JAZZ

Dopo che l’ambiziosissimo ‘The Inner Spectrum of Variables’ ha confermato l’attenzione e la curiosità che gli addetti ai lavori prestano all’opera di Tyshawn Sorey (tra gli altri, anche il prestigiosissimo Alex Ross ha parlato favorevolmente del suo esotico connubio di composizione accademica e improvvisazione jazz), per il musicista del New Jersey si è aperto un florido periodo di attività. Nel 2016, è stata la volta di ‘Josephine Baker: A Portrait’, la cui premiere al Lincoln Center’s Mostly Mozart Festival si è guadagnata il plauso della critica: il New York Times si è sbilanciato definendolo “uno dei lavori più importanti emersi nell’epoca del Black Lives Matter’, riferimento non casuale visto che proprio per celebrare tale movimento gli è stato commissionato un ciclo di canzoni (che vedrà il suo debutto all’Opera di Philadelphia e al Carnegie Hall nel 2018).

Nel frattempo, è arrivato anche un successore in studio dell’ultimo monumentale doppio album. Ridotta (almeno per il momento) la line-up cameristica di ‘The Inner Spectrum of Variables’, Sorey è ritornato al più misurato piano trio che si era esibito su ‘Alloy’ del 2014, con i soliti fidati Cory Smythe al pianoforte e Christopher Tordini al contrabbasso, per registrare ‘Verisimilitude’, pubblicato questo agosto dalla sempre eccellente Pi Recordings.

L’abbandono del quartetto d’archi, che era stato fondamentale nella resa finale del disco precedente, non va però erroneamente interpretato come un passo indietro nell’esplorazione della poetica musicale di Sorey. Nonostante, oltre alla formazione, sia stato snellito anche il minutaggio (da quasi due ore di musica si è passato a circa un’ora e venti, per cinque tracce di materiale inedito registrate al Newport Jazz Festival e al Village Vanguard), ‘Verisimilitude’ riparte anzi proprio dalle sofisticate partiture di ‘The Inner Spectrum of Variables’: esattamente come nel precedente capitolo, la musica di Sorey si svela in brani estremamente complessi, ancora una volta a cercare una terza via tra le tecniche di composizione della produzione cameristica del Novecento e la pulsazione ritmica che proviene dall’improvvisazione del post-bop, ovviamente, ma anche da diverse tradizioni musicali non occidentali.

In effetti, risulta sempre più improprio inserire la proposta di Tyshawn Sorey nell’alveo del jazz, con cui già in precedenza vi erano legami molto marginali e dovuti perlopiù a contatti concettuali con artisti di confine come Butch Morris. Esattamente come avviene nell’ambito della musica colta, i brani di Tyshawn Sorey (composti e diretti da lui stesso) trovano il proprio fulcro in una continua ricerca armonica e timbrica, piuttosto che in una comunicazione più classicamente jazz tra i diversi strumenti fatta di esposizione di temi e improvvisazioni. Questo aspetto è forse più evidente nella performance di Cory Smythe: nel corso dell’album, il pianista sfodera una profonda padronanza del linguaggio classico che parte dal tardo romanticismo e si inoltra fino alle moderne derive della musica contemporanea; la sua esecuzione viene quindi arricchita dai variopinti ed elaborati giochi ritmici di Sorey, che si destreggia tra un arsenale di percussioni che anziché dare sostegno ritmico al flusso di note del pianoforte ne colorano la performance, e occasionalmente dalle tecniche non convenzionali del contrabbasso di Tordini.

Ciononostante, Sorey concede spazio di manovra e flessibilità di interpretazione del materiale, e il trio tramite segni verbali o testuali viene di volta in volta diretto dal suo leader nelle più assurde rivisitazioni del materiale di partenza (per esempio rileggendo la partitura, completamente o a partire da una certa battuta, al contrario). Seppur questo approccio risenta ovviamente delle avanguardie aleatorie, è impossibile – se non fuorviante – pensare che quanto sviluppato in ‘Verisimilitude’ possa prescindere dall’esperienza jazzistica del trio: lo stile al contrabbasso di Christopher Tordini si colloca nel solco dell’avant-jazz di derivazione post-bop (frequentemente le sue linee pulsanti e frenetiche richiamano quelle di storici bassisti come Alan Silva ed Henry Grimes, se non talvolta Charles Mingus), e quando Sorey comincia a suonare la sua batteria in una maniera più tradizionale emerge evidentemente la sua formazione negli ambienti dell’improvvisazione jazz più eterodossa. In questi momenti, anche Smythe rivela una invidiabile pronuncia ritmica, maturata da anni di lavori al fianco di musicisti come Peter Evans e Anthony Braxton.

All’infuori del primo brano (i quattro minuti e mezzo di ‘Cascade in Slow Motion’, una letargica introduzione giocata tra il delicato pianoforte tardo romantico e il battito jazz del contrabbasso), tutti i pezzi si muovono su sentieri inerpicati dallo sviluppo progressivo privo di temi ben delineati, in questo senso aumentando i punti di contatto con la musica classica moderna. In ‘Flowers for Penchant’, Tordini suona il proprio contrabbasso usando l’arco, e le sue linee spettrali rendono ancora più impalpabile l’atmosfera tessuta dalle note di pianoforte. La batteria di Sorey intanto tace: tutto farebbe pensare a una composizione di Morton Feldman, non fosse per il progressivo intorbidimento delle melodie di pianoforte, sempre più turbolente e sfumate dal pedale, che rimandano all’impressionismo di Debussy. Sulla conclusiva ‘Contemplating Tranquillity’, forse il brano più onirico ed etereo di tutto l’album, l’intervento del glockenspiel, i cui colpi sembrano prescindere da qualsiasi linea temporale ben definita, enfatizza i legami con la musica cameristica di Feldman e in particolare con il capolavoro ‘For Philip Guston’.

Sono però ‘Obsidian’ e ‘Algid November’ i brani pivotali dell’album, dove viene implementato il maggior numero di tecniche oblique e dove viene portato a compimento il più impressionante connubio di anima compositiva e improvvisativa. Nell’arco dei quasi cinquanta minuti che occupano questi due colossi si susseguono invenzioni melodiche, armoniche, timbriche e ritmiche di ogni tipo, seguendo uno sviluppo astratto e altamente non lineare. ‘Obsidian’ è aperta da uno scenario fatto di massicce dosi di live electronics a proiettare il trio in un vuoto siderale elettroacustico, con echi strumentali alieni che si rispondono l’un l’altro. Il brano procede quindi su sviluppi sempre più incoerenti, con sfoghi ritmici del contrabbasso, frasi sconnesse di pianoforte degne di un’opera di Xenakis, cluster di pianoforte enfatizzati dall’intervento sotterraneo dell’elettronica che conferisce loro uno spessore quasi orchestrale e, sullo sfondo, acquerelli di percussioni di ogni tipo (tra quelli discernibili, si contano timpani, piatti, tamburi, campanelle, gong).

Molto più subliminale è invece ‘Algid November’, che si evolve lentamente da un tessuto minimale di accordi in pianissimo e sfarfallii di piatti e campanelli (con il solo Tordini a fare da collante tra i discorsi paralleli di pianoforte e percussioni) fino a una fugace improvvisazione dal carattere chiaramente post-bop – anche il pianismo di Smythe qui diviene più jazzato, con uno stile che riecheggia Lennie Tristano e Anthony Davis – per poi scemare nuovamente verso texture oscure, fatte di echi di piatti in lontananza e note centellinate di pianoforte.

Per quanto concettualmente e spiritualmente nella musica di Tyshawn Sorey non sia cambiato granché da ‘The Inner Spectrum of Variables’, ‘Verisimilitude’ rispetto al predecessore guadagna in visione di insieme e compattezza: nonostante questo lavoro risulti non meno denso e cervellotico, è fortemente ridotta la sensazione di essere alle prese con una mole di materiale eccessivamente orpellata di lungaggini inutili. E così, l’attenzione può soffermarsi maggiormente sui dettagli del mondo misterioso e umbratile tratteggiato dalla palette sonora del trio, qui più che mai in stato di grazia.
(Ema)

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