FREE FALL JAZZ

Dopo i primi due entusiasmanti capitoli dell’opera ‘Coin Coin’, Matana Roberts decide di attuare un importante (e tutto sommato, imprevisto) cambio di rotta stilistico per la registrazione del terzo episodio della saga.

Fin dai primi secondi, l’aspetto più evidente nella musica di ‘River Run Thee’ (questo è il titolo scelto per il nuovo album) è infatti la lontananza dal linguaggio canonico del jazz, che nei due precedenti ed esaltanti lavori costituiva invece l’elemento fondante e principale da cui la Roberts ripartiva per l’elaborazione della sua poetica personale. Non vi sono più ensemble più o meno vasti a supportare la musicista: per tutta la durata del disco si ascoltano solo qualche field recording, la voce della Roberts e il suo sassofono, comunque sottoposto a un processo di metamorfosi e di snaturalizzazione che rende solo una minoranza dei suoi interventi riconducibili a un approccio classico allo strumento (il suo suono viene alimentato da mini synth, oppure acquista riverbero naturale grazie all’utilizzo del rivestimento rotto di un pianoforte, o ancora viene registrato piazzando i microfoni in particolari angoli della stanza per coglierne diverse sfumature).

Naturalmente, l’utilizzo di così pochi strumenti costringe la Roberts a ricorrere a tecniche di overdub, che però anziché essere sfruttate solo per correggere momenti “isolati” dell’album vengono utilizzate per tutta la sua durata, realizzando di fatto diversi strati musicali sovrapposti l’un l’altro, con la Roberts a scorrere il nastro più e più volte riregistrandovi sopra a ogni iterazione. La musica che emerge alla fine di questo processo ha quindi molte più affinità con il drone o con le opere di sperimentazione vocale piuttosto che con il jazz, anche perché il trattamento riservato al sax, tra overdub, amplificazioni e riverberi di ogni tipo, rende il suo contributo molto simile a quello di tastiere ed elettronica.

Ma a uno studio così attento e sofisticato in fase di registrazione non corrisponde un’adeguata attenzione riservata alla scrittura dei brani. L’apertura di ‘All Is Written’, che con i suoi dieci minuti netti di durata dovrebbe essere il pezzo da novanta del disco, si gioca insensatamente tra grovigli di voci (diverse parti di spoken word, che sembrano interagire tra loro in un chiacchiericcio urbano, sotto a una linea vocale principale che riprende in chiave più canonica le prove anni Settanta di Jeanne Lee), linee sconnesse di sassofono sovrapposte e found sound di varia natura, senza che vi sia però una struttura coerente o uno sviluppo interessante del brano: tutto galleggia immobile e impermutabile, sempre uguale a se stesso, e l’interesse originario si tramuta presto in noia e fastidio.

Quel che è peggio è però che il resto della tracklist si muove sullo stesso sentiero, sviluppando ostinatamente la stessa idea senza mai esibire importanti variazioni musicali o concettuali. Qualche volta il sassofono distorto si lancia in grida acute, altre volte tesse un bordone su cui le voci possano chiacchierare, su ‘A Single Man O’ War’ il suo contributo a tratti diventa indistinguibile dalle scorribande dei primi sperimentatori della tecnologia elettronica di cinquant’anni fa; di tanto in tanto, abbozza qualche effettivo fraseggio jazz (su ‘Dreamer of Dreams’ o ‘Always Say Your Name’, di fatto, esegue dei veri e propri assoli secondo i dettami dell’avant-jazz di Chicago, seppur sabotati dall’addensarsi delle trame musicali di sottofondo), ma l’effetto finale è sempre il solito, anche per l’abuso del trucco degli overdub delle parti vocali che toglie efficacia ai pochi cambi di atmosfera lungo il lavoro.

Nonostante un minutaggio piuttosto contenuto rispetto agli standard attuali – circa tre quarti d’ora – ‘River Run Thee’ pertanto fa percepire una durata ben più sfiancante, perché ciò che di realmente interessante ha da offrire lo esaurisce in poche trovate eccentriche disperse in un oceano di ripetizione e monotonia, che sembra tanto voler strizzare l’occhio al pubblico alternativo di casa Constellation (che, ancora una volta, si è occupata della pubblicazione del disco). A una musica tanto verbosa e priva di qualsivoglia guizzo creativo non bastano di certo le pretese del concept sulla condizione della popolazione afroamericana ante guerra, o trovate di marketing come il tumblr recentemente varato per documentare la vita di Matana Roberts su una barca a Brooklyn (su cui trascorrerà i mesi immediatamente successivi all’uscita del disco), né tantomeno lo studio maniacale a monte, per acquisire alcun tipo di interesse o profondità.
(Ema)

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