Nel 2015 Kamasi Washington pubblica il suo primo album, l’ambizioso e roboante ‘The Epic’. Ad esso ho dedicato una recensione e un paio di altri articoli a latere: uno sulle inevitabili polemiche scatenate dalla frangia di critica più ideologizzata, l’altro sulle potenziali conseguenze dell’hype. (Continua a leggere)
Musica colta o popolare? Musica d’arte o commerciale? Musica d’ascolto o da ballo? (Continua a leggere)
Se vi capita di avere a che fare con un interlocutore che si dichiara jazzista o un semplice appassionato del jazz, per verificare se lo è davvero, chiedetegli cosa è per lui il blues. (Continua a leggere)
Uno dei discorsi intorno al jazz che si ripropongono ciclicamente tra gli appassionati è la sostanziale inutilità dell’utilizzo di etichette per definire ciò che si ascolta, in quanto il linguaggio jazzistico risulterebbe ormai talmente miscelato – o, per usare un termine assai di moda, “contaminato” – con altre culture musicali, da rendere pressoché impossibile, oltre che inutile, applicare certe distinzioni di genere. (Continua a leggere)
Le recenti notizie a proposito del ritiro dalle scene di Aretha Franklin e Gary Burton mi hanno fatto pensare, oltre alla serietà e responsabilità di decisioni come queste, a come invece nel nostro paese certi jazzisti sfiatati sopravvalutati oltre la decenza da una narrazione nazional-nazionalistica sistematicamente mistificatoria e che esibiscono ormai sul palco per lo più imbarazzanti stecche e lagne aritmiche prive di qualsiasi barlume di creatività, si guardino bene dal solo pensare ad azioni dignitose del genere, lasciando spazio alle giovani leve, comportandosi esattamente allo stesso modo dei molti nostri politici che occupano scranni parlamentari e posti di potere in eterno, riproponendosi anche dopo acclarati fallimenti della loro azione politica (per non dire altro di peggio). (Continua a leggere)
Sapete il jazz, no? Quella musica che, se passate da queste parti, almeno un po’ vi piace, e che certamente piace a noi che ne scriviamo qui sopra. (Continua a leggere)
Se vi raccontano a colpi di “eureka” e dopo decenni di sedicenti “mitologie” che la Black Music non esiste, non dategli retta, sono solo opinioni come minimo discutibili, se non proprio balzane, magari dette con aria pseudo colta, ma sempre tali rimangono, e se invece di far spallucce vi verrà da pensare che sia il caso di dar retta a chi lo sostiene, solo perché immaginate abbia più competenze e conoscenze di voi, vi dico di non sottovalutarvi così tanto e provare ad ascoltare, anche solo ad esempio, un brano come quello che sto per proporvi, fidandovi delle vostre orecchie e non delle chiacchiere altrui, osservando la pronuncia, il suono e il feeling di quel gigante del sax tenore che è stato Stanley Turrentine, nero che più nero non si può, domandandovi se vi sia mai capitato di ascoltare, che so, un jazzista europeo o italiano che abbia suonato nel modo sotto proposto. (Continua a leggere)
In questi giorni si è letto davvero uno sproposito di omaggi e articoli per celebrare l’anniversario della nascita di John Coltrane. Tutto molto bello, cioè no, mica tanto, perché se ne sono lette di tutti i colori. Leggendo in particolare un lungo articolo su A Love Supreme (tema peraltro davvero scontato e troppo inflazionato per mettere in rilievo la sua figura), mi sembrava di leggere per il tipo di linguaggio usato uno scritto di 40 anni fa, rendendomi conto una volta di più di quanto la prevalente narrazione italica sul jazz sia ancora condizionata e viziata da argomentazioni obsolete di stampo ideologico, zeppe di pregiudizi, stereotipi e cliché critici ormai desueti. Ad esempio, su come siano da intendere concetti come “tradizione” e “avanguardia” nella cultura musicale africano-americana, che mi pare continui ad essere vista solo sotto uno stantio filtro eurocentrico chiaramente distorcente, condito pure con discrete dosi di inconsapevole razzismo. (Continua a leggere)
Sempre più spesso ci capita di leggere discorsi contraddittori sul jazz, tra sedicenti “puristi” che vorrebbero ingabbiare questa musica in confini ristretti, magari semplicemente legati al proprio gusto personale e chi invece, cercando di darsi una apparenza di persona musicalmente e culturalmente aperta, straparla di “aprirsi alle musiche”, e di musica “evoluta”, se non proprio ormai affrancata dalla propria tradizione e mutata in qualcosa nel quale sarebbe ormai inutile cercare di identificare certe peculiarità stilistiche. (Continua a leggere)
Muscolare. Musicista muscolare. Lo si legge spesso e volentieri, negli articoli italiani sul jazz (non sui nostri, tranne in questo). In inglese almeno, “muscular” e “jazz” danno ricerche infruttuose, Google alla mano. Ma pure con altri aggettivi della stessa area semantica non va molto meglio. Tranquilli, non sto facendo della linguistica comparata! (Continua a leggere)