FREE FALL JAZZ

Negli ultimi tempi ho recensito diversi album molto recenti, tutti quanti di ottimo livello, che presi di per sé restituiscono un’immagine estremamente positiva del jazz più recente. C’è una cosa che accomuna tutti questi album, e non è tanto la musica, quanto l’aspetto discografico: sono usciti per case specializzate in jazz (Criss Cross, Blue Note, la neonata Smoke, Nonesuch, Concord, OKeh, Highnote, Delmark, AUM, Pi e altre ancora), o sulle etichette personali fondate dai musicisti stessi per gestirsi in prima persona. Spostando l’attenzione alle cose che più ascolto in questo periodo, potrei fare un elenco che comprende EJ Strickland, Marquis Hill, Walter Smith III, Brian Blade, Rufus Reid, Steve Coleman, Rudresh Mahantappah, Tivon Pennicott, Darius Jones, Ali Jackson, Terri Lynn Carrington, Marcus Roberts, Tim Warfield, Makaya McCraven, Miguel Zenon, Kamasi Washington. Alcuni di questi li ho già recensiti, altri lo saranno nelle prossime settimane. Tutti quanti rientrano nella stessa distribuzione di case discografiche detta prima: specializzate, di grandi, medie o piccole dimensioni, o autoproduzioni. Tutti, tranne uno: l’album di Kamasi Washington, uscito su Brainfeeder, una casa discografica dedita, in linea di massima, a musica elettronica e hip hop strumentali. Il fondatore è Flying Lotus, ovvero Steven Ellison, uno dei musicisti e producer più acclamati degli ultimi anni. Kamasi Washington ha fatto un disco davvero bello, e jazz nei riferimenti e nell’estetica al 100%. Stessa cosa che possiamo dire di tutti quelli elencati là sopra, ovviamente. La differenza sta nella ricezione: ‘The Epic’ è stato accolto in maniera trionfale dai media musicali d’oltreoceano (qui no, perché insomma, vuoi mettere, da noi ci sono Braxton e il Sonic Genome…), in particolare da quelli che di solito del jazz se ne fregano. Un conto è finire su DownBeat o Jazztimes o i giornali che a questa musica bene o male dedicano spazio, tipo il New York Times, un altro su Pitchfork, Sputnikmusic e similia, ovvero media che al massimo trattano propaggini confinanti. I concerti di presentazione del disco sono stati dei trionfi, l’emittente NPR l’ha trasmesso in anteprima (ma questo non è affatto strano), e i commenti strampalati abbondano. I più ricorrenti sono del tenore “finalmente un disco che risveglia il jazz dall’accademismo e dal torpore degli ultimi trent’anni”: suppongo che questa gente si limiti alle diatribe sulle note di copertina di Stanley Crouch e non ascolti un bel niente da secoli.

Il punto è, l’avrete capito, l’esposizione. ‘The Epic’ sarebbe potuto uscire tranquillamente su Concord o Motema, sonorità alla mano. La Brainfeeder, abituata a lavorare su altri canali rispetto a quelli soliti del jazz, l’ha portato anche presso un pubblico diverso dal solito, generando molta sensazione – molto “hype”, come si dice di solito. Meritato, perché è un gran bel lavoro. E vien da pensare che pure EJ Strickland e Marquis Hill, come pure Christian Scott o Jason Palmer o Tia Fuller, potrebbero farsi valere altrettanto – a quanto pare, la gente è capace di entusiasmarsi per del jazz autentico e contemporaneo, senza annacquamenti pop o astrusità da intellettual-wannabe. Bisogna aspettare del tempo per trarre conclusioni un po’ meno che parziali, si capisce. Eppure, come diceva quel tale, “eppur si muove”.
(Negrodeath)

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