FREE FALL JAZZ

Muscolare. Musicista muscolare. Lo si legge spesso e volentieri, negli articoli italiani sul jazz (non sui nostri, tranne in questo). In inglese almeno, “muscular” e “jazz” danno ricerche infruttuose, Google alla mano. Ma pure con altri aggettivi della stessa area semantica non va molto meglio. Tranquilli, non sto facendo della linguistica comparata! E’ singolare come solo una certa categoria di musicisti sia muscolare: solitamente, i musicisti 1) americani, 2) capaci di suonare, comporre e improvvisare, nonché dotati di una preparazione teorica a prova di bomba, 3) ben immersi nella storia e nella cultura del jazz dalle origini a oggi, 4) desiderosi di portare avanti questa musica senza prescindere dai tre punti precedenti. Sono muscolari, a quanto sembra. Solitamente, si evidenzia la muscolatura in contrapposizione alle doti intellettuali – il famoso “tutto muscoli e niente cervello”, giusto? Insomma, il nostro musicista muscolare è un grande virtuoso dello strumento, certo, ma non è affatto creativo, gli manca il cervello per uscire dai confini dell’esibizione virtuosistica. Sarà un caso, ma chi affibbia patenti di “muscolarità “, di solito con un certo paternalismo, solitamente va in brodo di giuggiole per polverosa avanguardia, trombettisti sfiatati e new age per documentari sulle 380 specie diverse di muschio rinvenibili nei fiordi. Sembra di assistere alla trita, scontata dialettica da talent show, le facili contrapposizioni “alto vs. basso”, “tecnica vs. emozione” e via discorrendo – “Enrico, mi sei arrivato, io voto sì!”, “Ambrose, mi dispiace, ma non ti sento, mancano le emozioni nella tua musica!” Oh vuoi vedere che è sempre la solita storia? Che “muscolare” significa, semplicemente, jazz in quanto tale? Sembra quasi che tutto il percorso di questa musica fino ai tardi anni ’60, o giù di lì, venga giustificato in quanto storia e fanciullezza del genere, mentre oggi comincia l’età adulta, quindi guai a tenere a mente quelle caratteristiche che in teoria ne costituiscono l’identità  sonora e culturale, ormai siamo cresciuti, non si fa più. Christian Scott, James Brandon Lewis, Orrin Evans, fatevi da parte, che ci sono Paolo Fresu, Mats Gustafsson e gli Angles 9! Naturalmente, nessuno vuole impedire a questi ultimi di suonare. Vorrei solo più onestà intellettuale in giro, leggere più spesso di musica improvvisata europea e non di jazz quando non c’entra proprio nulla. Però il termine tira, evidentemente, e nell’immaginazione comune dove ci sono gli strumenti a fiato c’è il jazz.

Oggi, nel muscolare mondo del jazz muscolare, vediamo un gran varietà di materiali e approcci compositivi ed esecutivi – da Brian Blade a Tia Fuller passando per Etienne Charles e Jason Moran, sfido a dire che sia tutto uguale. E ho sparato quattro nomi a caso, perché potrei tirare in ballo pure Jason Palmer, Mary Halvorson (che però si salva, in quanto allieva di Anthony Braxton), Walter Smith III, Mark Turner o Keith Brown e sarei da capo. Ciascuno di loro compone temi ben delineati e guida le proprie band attraverso un’elaborazione collettiva dello stesso, attraverso tutte le tecniche, le teorie e le prassi messe a disposizione dal jazz in un secolo di storia, senza considerare quelle messe a punto di recente o in proprio. Non mancano mai, però, quel senso di moto in avanti, di energia ritmica, concezione flessibile del suono e del ritmo, in una musica ricca di colori e variazioni dinamiche, spesso “orchestrata” dalla batteria… E il materiale di partenza? Dagli standard (ancora oggi serbatoio e palestra inesauribili) a repertori tratti dalla musica popolare (nera o meno) per finire con, beh, qualsiasi altra cosa, tutto va bene, perché conta più come lo si fa. I recenti scalpori per un articolo di Ted Gioia su jazz e pop sono ingiustificati, si tratta di scoperta dell’acqua calda mista ad un certo trombonismo su alcune tendenze della moda del momento. Mi permette però di aprire una parentesi: ben venga materiale di partenza pop, da cui spesso e volentieri fiorisce musica strepitosa. Mi pare abbastanza evidente come una tema riuscito dal punto di vista melodico e ritmico costituisca un seme essenziale per sviluppare del grande jazz attraverso l’esplorazione di gruppo. Il concerto, per molti versi ammirevole, di Steve Lehman dello scorso marzo mi ha schiarito le idee a riguardo: temi scheletrici, troppo simili fra loro e sbrigati come noiose formalità hanno portato un gruppo strepitoso a suonare musica fin troppo ripetitiva.

Tanti discorsi, ma ci siamo capiti. Forse. E’ spiacevole vedere come il jazz, per essere considerato degno d’attenzione, debba smettere di essere jazz e convertirsi in una generica “musica improvvisata per sassofoni e trombe” che si conformi ad un’aulica idea calata dall’alto di musica rispettabile e/o d’avanguardia. Sono ripetitivo, può essere. Ma repetita iuvant, dice.
(Negrodeath)

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