FREE FALL JAZZ

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Uno dei discorsi intorno al jazz che si ripropongono ciclicamente tra gli appassionati è la sostanziale inutilità dell’utilizzo di etichette per definire ciò che si ascolta, in quanto il linguaggio jazzistico risulterebbe ormai talmente miscelato – o, per usare un termine assai di moda,  “contaminato” – con altre culture musicali, da rendere pressoché impossibile, oltre che inutile, applicare certe distinzioni di genere. In conseguenza di ciò, il jazz sarebbe divenuto oggi una sorta di grande pentolone musicale contenente un po’ tutti i linguaggi musicali, senza limitazioni di sorta, a mo’ di idioma universale a disposizione di chiunque voglia praticarlo nelle forme e nelle modalità che preferisce. Di conseguenza, sotto l’etichetta “jazz” può ormai starci e si può proporre di tutto (ma di fatto si propone al pubblico dei concerti una visione assai più limitata di quanto non si affermi), ossia, musica più o meno improvvisata, purché non collocabile inequivocabilmente in ambito accademico o “colto” che dir si voglia. Insomma, esisterebbe “la musica” e basta. Chi non la vede in questo modo è solo un ottuso “purista”, un conservatore/tradizionalista nemico di un non meglio definito “progresso musicale” nel jazz.

Un’altra argomentazione a sostegno di questa tesi è prodotta dagli stessi musicisti (per lo più italiani dai miei riscontri), o almeno una loro parte, i quali sostengono che le etichette comporterebbero, a loro dire, una limitazione al loro campo d’azione e alla loro creatività musicale.

Con tutto il rispetto per i sostenitori di codeste tesi, mi pare invece che si faccia della discreta confusione sul tema e che tali argomentazioni siano piuttosto contraddittorie, se non pretestuose, e che dietro ad una facciata di esibita apertura mentale, a fronte della supposta chiusura della controparte, si nasconda invece dell’altro.

Come ho avuto modo di scrivere recentemente in un articolo pubblicato su Musica Jazz a proposito della figura di Stanley Turrentine, in realtà i “puristi” e i cosiddetti “progressisti” del jazz tendono a condividere nell’impostazione critica alla materia molte più cose di quanto essi stessi credano, poiché in realtà li accomuna un medesimo approccio ideologico, apparentemente opposto, zeppo di steccati e chiusure pregiudiziali, che in realtà non riguardano e mai hanno riguardato il jazz. Diciamo che quelli esibiti dai “puristi” appaiono solo più evidenti, ma, nella sostanza, se ne nascondono di più ”limitanti” dal punto di vista culturale e divulgativo tra i sedicenti “progressisti”.

Un conto è discutere il valore delle proposte musicali (l’etichetta “jazz” in tal senso non è necessaria e non è sinonimo di qualità, anzi, in tutta sincerità, si ascolta oggi non di rado musica mediocre in quell’ambito) un altro è stabilirne l’eventuale collocazione a priori e far derivare i giudizi di merito su tali basi.

Ci sono parecchie cose da chiarire sul tema. Per prima cosa si constata che certi discorsi si tendono a fare solo col jazz, il che insospettisce non poco. Mi pare che in troppi portino alle estreme conseguenze il fatto che, siccome il jazz è stato sin dalle sue origini una musica “spuria”, cioè a contributo culturale e linguistico multiplo, significa che esso possa essere tutto e il contrario di tutto. In realtà il ragionamento da farsi non è così semplicistico. Il jazz continua comunque a mantenere alcune peculiarità che lo distinguono da altre musiche e credo che tendenzialmente le manterrà sempre. Una di queste, per mio conto dirimente, è la presenza di una “pronuncia” e una specifica elaborazione ritmica nella formazione del pensiero musicale (non necessariamente lo “swing”, chiarisco), sia esso manifestabile nella composizione scritta, o come si afferma per l’improvvisazione, in quella “istantanea”. Molti pensano che l’elemento che distingue il jazz da altre musiche sia proprio la presenza dell’improvvisazione. Ciò è sostanzialmente falso. E’ noto che l’improvvisazione era già praticata dai grandi compositori della musica classica del Settecento e dell’Ottocento (se non prima) e semmai il problema è in che modo e con quale “pronuncia” la si esercita. Non tutto ciò che è improvvisato è di natura jazzistica, come non è detto che una musica totalmente scritta sia da non ritenere nell’alveo del jazz. Si potrebbero fare diversi esempi di opere scritte che sono da considerare perfettamente jazzistiche e, viceversa, opere totalmente improvvisate che non lo sono per niente.

A questo punto si potrebbe pensare: “E chi se ne frega?”. L’unica cosa che dovrebbe importare è se è buona o cattiva musica. Giusto, e se ciò è vero, allora la domanda successiva che verrebbe da porsi è: “Perché continuare a usare la parola “jazz” per definirla?”. Non se ne vede la necessità né lo scopo culturale, tutt’altro. Mi sbaglierò, ma vedo solo un recondito discorso di convenienze, il tutto a scapito magari di chi quella musica l’ha saputa fare e magari ha contribuito grandemente a costruirla e a dargli forma, facendola divenire un vero e proprio nuovo linguaggio, ovviamente in continua trasformazione. Peraltro, se le etichette non si devono usare, lo si deve fare in tutto e per tutto. In tal caso, non vorrei più sentir parlare allora di “jazz italiano”, “giapponese”, “russo”, “mediterraneo”, “nordico”, o che altro, e di tradizioni musicali e culturali connesse al territorio. Perché mai si dovrebbe, ad esempio, distinguere il melodramma italiano, o la canzone napoletana, o identificare una supposta “italianità” del jazz? Lo dico perché, in modo contraddittorio, spesso si nota che chi s’inalbera quando si riconosce l’esistenza di una “black music” piuttosto che una preponderanza del contributo afro-americano alla formazione del linguaggio jazzistico (peraltro cosa storicamente poco discutibile), poi rivendica con enfasi il contributo europeo, o certo supposto “made in Italy” di certe tradizioni. Occorre coerentemente decidersi su che posizione prendere in merito, evitando di applicare il classico “due pesi e due misure”. E’ evidente che esistano tradizioni differenti e perfettamente identificabili in ogni campo, non solo nella musica e nel jazz, anche in questo tempo di globalizzazione selvaggia, come dovrebbe peraltro essere evidente (perlomeno a chi studia la materia) che “il tutto è maggiore (e soprattutto diverso) della somma delle sue parti”. Pensiero che, oltre ad essere profondamente scientifico applicato a un sistema complesso come certamente è considerabile la formazione di un linguaggio musicale, è da far risalire addirittura ai tempi del pensiero filosofico di Aristotele.

Questo approccio così ambiguo (per essere prudenti e gentili nei termini) verso il jazz ha di fatto prodotto solo l’effetto deleterio di proporre come tale musiche che col jazz non hanno e non hanno mai avuto alcun tipo di rapporto, sia in un senso che nell’altro. Se la cosa diventa accettabile, mi domando che senso abbia poi a quel punto lamentarsi (tipico refrain di molti appassionati) perché nei festival del jazz si propongono star del Pop del momento o gruppi hip-hop, o vecchie glorie del Rock, piuttosto che vecchie cariatidi della musica leggera italiana anni ’60. Pare quasi conseguenziale e inevitabile. E, d’altro canto, perché far passare della musica come quella che mi è capitato di ascoltare recentemente a Bergamo dal gruppo norvegese di Christian Wallumrød per grande jazz, quando non ne aveva i minimi requisiti? In diversi hanno additato addirittura quel concerto come il migliore della manifestazione. Può anche essere, in generale, per quanto dal mio punto di vista l’abbia trovata musica di concezione compositiva piuttosto vecchia (peraltro totalmente scritta), al di là dell’assegnazione di eventuali etichette, certo non meno vecchia di tanto deplorato (dagli stessi che la esaltano) “mainstream americano”.

La cosa curiosa è che poi in Italia non si vede né, temo, vedremo mai, nelle manifestazioni denominate “jazz”, artisti e musicisti ad esempio del cosiddetto “latin-jazz”, solo perché si è del tutto inspiegabilmente e impropriamente stabilito che quel genere di “contaminazione” è solo “salsa”, cioè musica “commerciale” da ballare e non adatta al “colto” ascolto. Un implicito giudizio (molto superficiale, se non privo di fondamento) che trova la sua giustificazione solo in un retaggio ideologico verso il jazz e certe limitrofe culture musicali che definire obsoleto, oltre che estraneo alla materia, è dir poco. Siamo in presenza di reminiscenze di pensiero da far risalire all’età del Giurassico, in termini di critica musicale intorno al jazz, altro che “progressismo”. Non dico di invitare alle manifestazioni gruppi dichiaratamente di salsa, peraltro assai divertenti (altra parola orrenda e proibita nel jazz per certe contorte menti) e più contigui al jazz di quanto non si pensi, ma almeno eccelsi compositori da tempo celebrati negli U.S.A. come jazzisti, qui del tutto inspiegabilmente ignorati.

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Arturo O’Farrill, cinquantasettenne compositore figlio d’arte (del grande Chico O’Farrill), considerato da tempo uno dei musicisti più importanti in circolazione e assai stimato anche da molti acclamati jazzisti “avanzati” come Rudresh Mahanthappa e Vijay Iyer, che ci collaborano spesso, ne è un esempio. O’Farrill ha prodotto negli ultimi anni lavori orchestrali a largo respiro di alto livello musicale, anche premiati con tanto di riconoscimenti internazionali, che a quanto pare hanno il difetto per certuni di utilizzare ritmi latini e afro-cubani. Il musicista newyorkese di radici familiari cubane ha avuto modo di suonare in Italia per la prima volta in ottetto e con grande riscontro ad Aperitivo in Concerto solo nel gennaio 2016, pensando che avrebbe poi ricevuto dopo di allora una serie di proposte concertistiche nel nostro paese. Niente di tutto questo. Con sua sorpresa ha ricevuto zero inviti, caduto nell’assoluto oblio, mentre nel frattempo ci dovevamo sorbire la duecentocinquantesima esibizione concertistica annuale di qualche mito di cartapesta del “nostro” jazz.

Parrebbero dunque esistere per qualcuno contaminazioni accettabili e altre meno, con una sedicente “universalità jazzistica” evidentemente concepita “a scacchi” e a proprio piacimento. Sarebbe dunque questo il modo di fare cultura jazzistica nel nostro paese e dare un segnale utile a evidenziare la propria apertura in fatto di musica? A me pare avvenga l’esatto contrario. Più visione culturale limitata e settaria di questa non riesco proprio ad immaginare e prendersela solo con l’ottusità dei cosiddetti “puristi”, pensando di sentirsi magari migliori di loro, è forse comodo e gratificante solo per il proprio ego.

Al di là di questo, ciò che pare essere più grave è che si propone della pre-orientata divulgazione musicale procurando arbitrarie e ingiustificate amputazioni verso la conoscenza e l’aggiornamento musicale del pubblico dei fruitori. E dire che, rimanendo sul tema e nell’ambito del concetto di “contaminazioni”, le musiche latine costituiscono forse uno dei contributi principali e più diffusi, perfettamente integrate col jazz sin dai tempi di Jelly Roll Morton. Praticamente la musica latina e i relativi ritmi sono presenti dappertutto nella discografia jazzistica. Giusto per fare un esempio tra i tanti, forse sorprendente per alcuni, proprio ieri riascoltavo Bye- Ya di Thelonious Monk nella versione originale del 1952 con Art Blakey e Garry Mapp. Dico Monk, non Eddie Palmieri, Tito Puente, Paquito D’Rivera o Chuco Valdes, cioè sto citando una delle icone del jazz il cui genio è apprezzato pressoché da tutti, puristi e progressisti compresi. Vi siete accorti che quello è un pezzo latin in cui addirittura si batte esplicitamente il tempo di clave?



Che dire, parafrasando scherzosamente Fred Flintstone: “Wilma, passami la clave!”, ché pare occorra fare un bel ripasso di jazz in questo paese e a tutti i livelli.
(Riccardo Facchi)

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