FREE FALL JAZZ

brava gente's Articles

Pionere, visionario, polemico, lucidissimo fino alla fine, se n’è andato ieri Cecil Taylor, artista straordinario emerso a cavallo fra anni ’50 e ’60 ed esploso con fragore dirompente durante gli anni del free jazz. (Continua a leggere)

George Burton, pianista e compositore, è stato una delle più belle scoperte dell’ultimo periodo, grazie ad un esordio a dir poco strepitoso. In Italia almeno per ora non è stato considerato nemmeno di striscio, occasione in più per insistere con questo bel concerto newyorkese dello scorso maggio. Da notare una frontline deluxe con Jason Palmer (tromba) e Tim Warfield (sassofoni).


149746362259417b46e3444Ormai prossimo ai quarant’anni, e perciò sulla soglia della maturità umana e artistica, il trombettista Sean Jones rappresenta il classico esempio (ma sono moltissimi i casi citabili) di un jazzista americano di prim’ordine che in Italia non riesce a trovare adeguato spazio concertistico a causa della ben nota programmazione ottusa e miope delle nostre direzioni artistiche che, in un diabolico mix tra artificiose pretese “cultural-progressiste” e ristrettissime conoscenze in materia, tendono ad appoggiarsi ad un circolo chiuso di agenzie proponenti sempre gli stessi nomi, sin quasi allo sfinimento, disegnando al pubblico un quadro delle proposte presenti sulla scena contemporanea del jazz a dir poco settario e pesantemente limitato. (Continua a leggere)

stanley-turrentineQuesto scritto è la bozza originale di un lungo articolo pubblicato su Musica Jazz di aprile dello scorso anno. Come negli altri casi di miei pezzi pubblicati sulla rivista, lo ripubblico su questo blog (in conformità agli accordi informali presi a suo tempo con la direzione della rivista), completato da  link discografici e musicali ove è stato possibile rintracciare tali informazioni in rete, permettendo perciò di ascoltare mentre si legge. Buona lettura

Riccardo Facchi

Per quanto work song, blues, negro-spiritual, gospel e quant’altro in ambito afro-americano siano stati storicamente riconosciuti come radici fondanti del jazz, l’utilizzo di successive fonti popolari da essi derivate e presenti in parallelo sin dal dopoguerra alla formazione di un moderno linguaggio jazzistico è spesso stato visto con sospetto e spiccato atteggiamento critico, per lo più dal cultore europeo del jazz. (Continua a leggere)

Dall’ultimo ‘Vista Accumulation’ del 2015, Matt Mitchell non ha avuto un attimo di tregua. Ha suonato sui dischi pubblicati recentemente da Dan Weiss (il deludente ‘Sixteen: Drummers Suite’ del 2016), Steve Coleman (l’intrigante ‘Morphogenesis’, uscito quest’anno) e Tim Berne (‘Incidentals’, edito a settembre per ECM), tra gli altri; e solo a marzo pubblicava ‘FØRAGE’, una sua personale – ma prescindibile – rilettura in solo piano di alcune composizioni proprio di Tim Berne, volta ad omaggiare uno dei più importanti ascendenti sulla sua crescita musicale.

A settembre Mitchell è tornato quindi con il suo terzo effettivo full-length da leader, come al solito edito dalla Pi, intitolato ‘A Pouting Grimace’. Distanziandosi dalle formazioni ridotte dei suoi lavori precedenti, Mitchell questa volta si circonda di alcuni dei più dotati musicisti della scena avant-jazz americana contemporanea – dai classici collaboratori Dan Weiss e Ches Smith a Sara Schoenbeck, Jon Irabagon e Anna Webber, scomodando anche Tyshawn Sorey (cui è affidato il prestigioso ruolo di direttore del complesso) –, organizzandoli in complessi dall’estensione variabile tra i cinque e i tredici elementi. (Continua a leggere)

AmbroseAkinmusire_ARiftInDecorum_coverAmbrose Akinmusire, classe 1982, è ormai un musicista sulla soglia della maturità in modo evidente, poiché sembra rinverdire i fasti della grande tradizione trombettistica africana-americana del jazz, ossia quella delle geniali figure nate dall’hard-bop anni ’50, sulla scia del loro capostipite Clifford Brown, ma  prossima più allo stile di Booker Little, con influenze successive e più libere rilevabili tra Don Cherry e Lester Bowie. Akinmusire sembra cioè ricercare una sintesi più ampia in ambito di moderna tradizione trombettistica, riuscendovi direi quasi perfettamente, anche su un piano espressivo, solitamente oggi un po’ trascurato rispetto al passato. A Rift In Decorum, è il suo terzo album da leader registrato per l’etichetta Blue Note, dopo When the Heart Emerges Glistening (2011) e The Imagined Savior Is Far Easier To Paint (2014), ed è un doppio CD che documenta un concerto al leggendario Village Vanguard di New York. (Continua a leggere)

George Avakian è una di quelle figure enormi, ma sempre sullo sfondo – il suo nome lo leggiamo sulle note dei nostri album, preferiti e non, nelle cronache dell’industria musicale, ma mai in primo piano, proprio perché musicista non fu mai (una medaglia per l’ovvietà). (Continua a leggere)

Un recente articolo su una nota rivista ha riproposto i ben noti luoghi comuni dello stupidario jazzistico, in salsa più che mai filosofico-intellettualizzante. Non poteva mancare lo sguardo paternalista al jazz pre-bebop, considerato musica importante dal punto di vista storico ma, come dire… sempliciotta, povera, robettina da negri, non certo musica d’arte. Pensavamo di esserci lasciati alle spalle certe stronzate, e invece trovano ancora spazio su riviste a tiratura nazionale. Bah. Risolleviamoci l’umore con questa bella esibizione francese di Coleman Hawkins, Roy Eldridge e Vic Dickerson con sezione ritmica, che è meglio!


downloadMentre siamo impegnati a proporre l’ennesimo fiacco e ripetitivo cartellone festivaliero fatto con i soliti nomi, per lo più imposti dalle agenzie, e a sorbirci inflazionati concerti di qualche strombazzata “starletta” nazionale fatta passare per grande del jazz, la misura di quanto questo paese sia fermo e miope in ambito di musiche improvvisate si percepisce da come riesce ancora a incensare dischi di invecchiate ed esauste figure dell’avanguardia storica, permettendosi nel contempo di trascurare il lavoro più che eccellente di compositori e pianisti di comprovate capacità, assai stimati nell’ambiente musicale, come Arturo O’Farrill, da anni uno dei jazzisti più importanti e riconosciuti a livello internazionale, mentre da noi è pressoché sconosciuto ai più. (Continua a leggere)

David Gilmore, chitarrista come il bel più famoso e quasi omonimo David Gilmour dei Pink Floyd, vanta ormai una carriera importante, fra collaborazioni che ne evidenziano innanzitutto la versatilità (Geri Allen, Wayne Shorter, Don Byron, Cassandra Wilson, Dave Douglas, Rudresh Mahantappah…) e un apprendistato di tutto rispetto alla corte di Steve Coleman durante gli anni ’90. Meno folta, ma sempre di notevole spessore, la sua produzione da titolare, di cui ricordiamo l’ottimo ‘Energies Of Change’. Con ‘Transitions’, Gilmore approda alla Criss Cross come leader un eccellente quintetto con cui affronta un repertorio teso ad omaggiare maestri ed ispirazioni (Woody Shaw, Bobby Hutcherson, Toots Thielemann), con l’aggiunta di alcuni brani originali. (Continua a leggere)