FREE FALL JAZZ

stanley-turrentineQuesto scritto è la bozza originale di un lungo articolo pubblicato su Musica Jazz di aprile dello scorso anno. Come negli altri casi di miei pezzi pubblicati sulla rivista, lo ripubblico su questo blog (in conformità agli accordi informali presi a suo tempo con la direzione della rivista), completato da  link discografici e musicali ove è stato possibile rintracciare tali informazioni in rete, permettendo perciò di ascoltare mentre si legge. Buona lettura

Riccardo Facchi

Per quanto work song, blues, negro-spiritual, gospel e quant’altro in ambito afro-americano siano stati storicamente riconosciuti come radici fondanti del jazz, l’utilizzo di successive fonti popolari da essi derivate e presenti in parallelo sin dal dopoguerra alla formazione di un moderno linguaggio jazzistico è spesso stato visto con sospetto e spiccato atteggiamento critico, per lo più dal cultore europeo del jazz. Ciò perché si è inteso tale utilizzo come una forma di semplificazione linguistica, se non come una vera e propria banalizzazione, conseguente a una mera esigenza di “commercializzazione” musicale. Stiamo riferendoci nello specifico a musiche come R&B, soul, funk, pop, sino ad arrivare al più recente hip-hop. Eppure, a ben vedere, gli incroci con tali ambiti sono e sono stati diffusissimi nella carriera di tanti grandi protagonisti del jazz moderno, compresi i maggiori che hanno contribuito a codificarlo. Non si individuano perciò concrete motivazioni che giustificherebbero un tale atteggiamento, curiosamente condiviso in modo pressoché speculare sia dai cosiddetti “puristi” (termine questo che andrebbe bandito nel jazz, perché portatore di una implicita contraddizione per una musica così intrinsecamente “spuria”), sia dai sedicenti “progressisti”. Come affermava Gianni M. Gualberto in un suo recente scritto pubblicato in rete[1]: “L’uso di materiali e pratiche tratte dal rock, dal funk, dal soul, dall’hip hop è stato avvertito come una violenta intrusione nel linguaggio del jazz, con una voluta indifferenza nei confronti di una storica e manifesta comunanza di radici. Avendo creato all’interno della cultura africano-americana un’artificiale gerarchia, alla cui cima stava ovviamente il jazz, ogni altro materiale non poteva che risultare di natura inferiore: non era più importante come tali materiali venissero elaborati, ma quali materiali potevano essere o meno accettati; in poche parole, la tradizione africano-americana s’è trovata ingiustificatamente a disprezzare se stessa per l’imposizione di parametri esogeni, spesso eurocentrici per nascita e tendenti a svalutare o sottovalutare elementi estremamente significativi della sua costituzione.”

Il jazz, di fatto, ha sempre pescato il materiale musicale su cui lavorare dalle più svariate fonti popolari, potendo anche attingere a contributi non afro-americani, sfruttando la presenza delle diverse etnie e delle relative culture sul territorio americano. Non poteva essere altrimenti, essendone costantemente in contatto e tenendo conto della sua stessa natura inclusiva. Si potrebbe persino affermare che il jazz, per quanto più sofisticato, abbia fatto parte per diverso tempo di un medesimo bacino musicale popolare, che si è via via miscelato a quello più ampio americano, consolidandosi come un linguaggio a contributo multiplo, rappresentativo a pieno titolo della cultura statunitense, varcando poi, come noto, anche i confini continentali. Non a caso, un’icona del jazz più avanzato come Eric Dolphy ebbe semplicemente a dichiarare nei primi anni ’60 in una intervista a Leonard Feather: “ll jazz è musica popolare americana”.

L’implicita contraddizione presente nel gusto e nell’impostazione del suddetto cultore del jazz ha comportato la sistematica pregiudiziale sottovalutazione di tutta una serie di musicisti, alcuni dei quali assai più che significativi. Tra i tanti che si potrebbero citare in proposito, vi è stato il tenorsassofonista Stanley Turrentine, uno degli esponenti più rappresentativi dello strumento e dal suono più possente che il jazz abbia saputo produrre.

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Nato a Pittsburgh (città che ha dato i natali a tanti grandi jazzisti) nell’aprile del 1934, Stanley William Turrentine proveniva da una famiglia di musicisti. Il padre sassofonista Thomas, che aveva suonato lo stesso strumento con i Savoy Sultans di Al Cooper a fine anni ‘30, è stata una sua prima influenza di grande stimolo, così come lo sono stati la madre pianista e il fratello maggiore, il trombettista Tommy. Seguendo le orme del padre, Stanley prese infatti a suonare il sassofono già all’età di undici anni. Un’altra delle primissime influenze fu di Illinois Jacquet, che ebbe occasione di incontrare all’età di dodici anni e dal quale fu incoraggiato ad applicarsi sullo strumento. Il primo ingaggio professionale lo ottenne a diciassette anni dopo il college, nel 1951, con la band di Lowell Fulson specializzata nel blues e fu un’esperienza formativa subito decisiva, instaurando un rapporto così importante e profondo con quella forma musicale da segnargli indelebilmente lo stile e la carriera. “Credo che il mio suono ebbe inizio già da lì e da allora non ho potuto più evitare il blues”, ebbe egli stesso a precisare.  Com’è noto a molti, nella band di Fulson suonava un giovane pianista cieco il cui nome era Ray Charles, dal quale Turrentine, non a caso, avrebbe appreso molto in fatto di blues, gospel e relativo feeling in improvvisazione, diventandone uno dei più dotati ed espressivi interpreti sassofonistici della sua generazione. A tal proposito, si potrebbe sinteticamente sostenere, analizzando la discografia di Turrentine, che si sia trattato di un magnifico bluesman, per quanto trasposto in un linguaggio jazzistico più moderno, aggiornato cioè dall’hard-bop, affermandosi negli anni ’60 come uno dei protagonisti del cosiddetto soul-jazz.

Dopo l’esperienza con Fulson, Turrentine ritornò a Pittsburgh studiando per due anni con Carl Arter (presidente al tempo della Federazione dei Musicisti Americani, A.F.M., presso il Local 471 di Pittsburgh dedicato alle attività dei musicisti neri della zona) e nel 1953 si trasferì a Cleveland col fratello Tommy, entrambi per lavorare con Tadd Dameron. Quindi entrò a far parte nella formazione R&B di Earl Bostic in sostituzione di John Coltrane (in una band in cui spiccavano anche i nomi del giovane Blue Mitchell alla tromba e di George Tucker al contrabbasso) restando sino all’anno successivo, come anche documentato da alcune incisioni del leader contraltista per l’etichetta King.

Nel 1956 fece ritorno per un breve periodo a Pittsburgh prima di affrontare verso la fine di quell’anno l’esperienza nell’esercito come membro della 158th Army Band, dove poté completare la sua formazione musicale. Dopo due anni fece ritorno alla vita civile, riuscendo a farsi pienamente notare sulla scena jazzistica ingaggiato assieme al fratello da Max Roach, di passaggio a Pittsburgh durante un tour concertistico. Le prime incisioni con quella band risalgono alla primavera del 1959 e continuarono sino al maggio dell’anno successivo. Rispetto ai classici quintetti hard-bop del periodo, (costituiti da due fiati e ritmica), quello del grande batterista presentava una veste più raffinata e armonicamente libera, privata com’era dalla presenza del pianoforte, secondo i dettami estetici già perseguiti nella precedente formazione con Booker Little e George Coleman, piazzando il trombone di Julian Priester al posto del basso tuba di Ray Draper. Un’esperienza decisiva alla quale i due fratelli diedero un efficace contributo, partecipando alle registrazioni per la Mercury (Quiet As It’s Kept, Moon Faced And Starry Eyed e Parisian Sketches, inciso a Parigi) e seguendo il carismatico leader in una tournée europea nei primi mesi del 1960, documentata in un paio di brani concertistici registrati per la Enja. E’ stato proprio grazie alla visibilità ottenuta con quella formazione che Turrentine cominciò a lasciare di sé una forte impressione nel mondo del jazz, catturando in particolare l’attenzione di Alfred Lion, che gli fece firmare un lungo contratto in esclusiva con Blue Note Records, durato sino al 1969, dopo che i due fratelli a inizio anno avevano già avuto la possibilità di incidere i loro primi dischi da leader per la Time (Tommy Turrentine in sestetto, con l’ovvia presenza di Stanley e Stan “The Man” Turrentine, stavolta senza il fratello ma con la presenza nella ritmica di Roach).

R-8532512-1488213830-3037.jpeg Stanley in particolare mostrò in questo suo primo lavoro tutte le doti già di maturo sassofonista, brillante interprete di ballads (Time After Time), blues (Let’s Groove e Sheri) e brani tipicamente bop di sua composizione (Mild is the Mood, e Minor Mood). In quel 1960 si era nel frattempo sposato con l’organista Shirley Scott, con cui condividerà anche diversi successivi lavori discografici, trasferendosi in aprile a Philadelphia per pianificare studi più approfonditi di teoria e armonia, in vista di un’attività specifica anche da compositore.

Nel lungo periodo contrattuale con Blue Note, l’emergente sassofonista registrerà regolarmente sia come leader, sia come sideman per conto di Dizzy Reece, Horace Parlan, Art Taylor, Jimmy Smith, Duke Jordan, Ike Quebec, Duke Pearson, Donald Byrd, Kenny Burrell e Horace Silver. Le prime incisioni per quella prestigiosa etichetta furono da sideman e prodotte nell’aprile del 1960, per il trombettista Dizzy Reece (in Comin’On) e con l’organista Jimmy Smith (in due dischi differenti ma registrati alla stessa data e intitolati Midnight Special e Back At The Chicken Shack) secondo una formula poi replicata spesso con la moglie e che si rivelerà particolarmente adatta allo stile di Turrentine.  Nel primo caso, siamo di fronte al tipico clima hard-bop dell’epoca, più “caldo” rispetto a quello affrontato con Roach, in quanto alla batteria troviamo Art Blakey e al piano Bobby Timmons, in una sorta di versione alternativa nella front line dei Jazz Messengers del periodo. Turrentine si dimostrò a suo agio in quel contesto, competendo ai suoi livelli col leader sia sul blues (Ye Olde Blues) che sulla ballata ritmata (Tenderly). A maggior ragione quell’agio si manifestò nel clima pregno di blues feeling delle registrazioni con l’organista Jimmy Smith, nelle quali si produsse in assoli da par suo in Midnight Special, Jumpin’ The Blues, A Subtle One e Why Was I Born, introducendo anche una sua composizione come Minor Chant, che sarà poi replicata un paio di mesi dopo nella sua prima uscita da leader per l’etichetta. E’ infatti del giugno 1960 Look Out!, registrato in quartetto assieme ad una forte sezione ritmica messa a disposizione dalla casa discografica e costituita da Horace Parlan al piano, George Tucker al contrabbasso e Al Harewood alla batteria, nota anche come Us Three. Una ritmica con la quale dimostrerà di intendersi sul terreno comune del blues e dell’hard-bop anche in successive incisioni a nome del pianista (Speakin’ My Peace del luglio ’60 e On The Spur Of The Moment del marzo ‘61).  Il disco colpì nel segno sin dal brano omonimo: un blues semplicissimo di sua composizione in cui Turrentine si libra in improvvisazione con fantasia e rara efficacia espressiva, mettendo subito in chiaro il ruolo guida che volle assegnare al blues e più in generale alle sue radici nella propria musica.

E’ interessante notare a questo punto come in un periodo nel quale Coltrane si stava affermando come protagonista indiscusso del sassofonismo jazzistico, il suo stile ne fosse parecchio affrancato, pur essendo di sei anni più giovane e avendolo quindi ben presente. Un modello quello di Trane basato cioè su un approccio più scalare che accordale, utilizzato in improvvisazioni sempre più estese e che stava per divenire di influenza primaria per la maggior parte dei tenori di nuova generazione. Ne fu una riprova la versione di Syeeda’s Song Flute registrata per conto di Art Taylor in A.T.’s Delight nell’agosto del ’60, in cui è possibile fare un parallelo con quella del sassofonista di Hamlet (discorso analogo vale per la versione di Trane’s Blues registrata nel 1961 per conto di Shirley Scott in Hip Soul- Prestige), mentre in Cookoo and Fungi il suo eccellente assolo privo dell’appoggio armonico del pianoforte richiamò più da vicino il modo di improvvisare dell’alter ego Sonny Rollins che quello di Coltrane. Turrentine sembrava continuare a riferirsi a modelli classici, per quanto ammodernati dal bop, ossia con un approccio fraseologico sempre molto attento all’aspetto ritmico e alla prossimità in improvvisazione con la melodia di partenza, sviluppando assoli più stringati ma efficacissimi. Il tutto condito con elementi espressivi tipici dei sassofonismo classico e R&B, quali glissati, soffiati e vibrati sensuali (Ben Webster, Don Byas e Lucky Thompson paiono delle chiare influenze in questo senso, ma anche quella iniziale di Illinois Jacquet è evidente), oltre ad occasionali effetti da “honker” ottenuti sull’ancia. Ciò che catturava l’attenzione dell’ascoltatore erano l’attacco e il controllo sicuro della nota, prossimi appunto a quelli proverbiali di un Sonny Rollins, il suono dolce e allo stesso tempo muscolare, il possesso di una voce corposa, calda e dinamica e di un fraseggio fantasioso e articolato, ritmicamente sempre perfetto. Un approccio complessivo allo strumento che, come vedremo nel seguito della sua carriera, lo renderà un sassofonista “soul” particolarmente predisposto ad interpretare la canzone pop di ogni epoca, con una bellissima pronuncia blues sempre in primo piano e in grado di fornire prestazioni solistiche accattivanti per potenza, timbro e feeling.

R-3124847-1316942320.jpegIl lavoro, tutto godibile, venne completato con altre due sue composizioni in tonalità minore: Little Sheri (dedicata alla figlia) e il già citato Minor Chant, oltre a Tini Capers di Clifford Brown, un contributo di Parlan e una ballad del compositore britannico Robert Farnon, specializzato nella musica leggera e nella scrittura di temi per il cinema e la tv. Un’indicazione già sintomatica del suo futuro campo d’azione in ambito popolare. Nell’edizione in CD saranno poi aggiunte interpretazioni all’altezza di due standard molto frequentati come Tin Tin Deo e Yesterdays, che certo non demeritavano la pubblicazione (limitata ovviamente dal formato in vinile) e che avrebbero, nel caso, completato la panoramica delle diverse frecce al suo arco.

Blue Hour del dicembre ’60 è Il suo secondo disco da leader per l’etichetta di Alfred Lion ed è uno splendido lavoro tutto incentrato sul blues, non esclusivamente nella canonica forma a dodici battute, ma inteso anche utilizzato come feeling interpretativo nel cosiddetto “popular song”, o in ciò che s’intende con il termine “blues ballad”, solitamente considerato materiale adatto ai cantanti più che agli strumentisti. Coadiuvato da una ritmica perfettamente sintonizzata sul blues come quella dei Three Sounds capitanati del pianista Gene Harris (altro specialista del blues e scelta azzeccata del produttore), Turrentine dimostrò qui di esserne un eccezionale interprete, in grado con la qualità vocale del suo tenore di sostituire perfettamente il cantante di turno. La selezione dal materiale registrato in due sessioni pubblicate integralmente solo molto tempo dopo in edizione CD (la prima era in realtà di fine giugno, ma fu scartata rispetto a quella pubblicata proprio per la sostanziale scarsa attinenza al leitmotiv voluto dalla produzione), fece emergere un repertorio scelto con cura, in cui solo Blue Riff, a nome di Harris, era un classico blues, mentre I Want A Little Girl, Gee Baby Ain’t Good To You, Since I Fell For You e Willow Weep For Me, ne contenevano appieno l’umore, essendo canzoni con i requisiti appena descritti.

Tra le numerose partecipazioni del periodo ad incisioni altrui, un accenno lo merita Flight To Jordan, un autentico gioiello nella discografia di Duke Jordan e più in generale dall’hard-bop, tutto dedicato a sue ottime composizioni. Lo spazio lasciato ai due fiati dal leader (alla tromba ritroviamo uno splendido Dizzy Reece) è di rilievo e Stanley prese assoli degni di nota in particolare nel tema che dava il titolo al disco (basato sul noto spiritual Joshua Fit de Battle of Jericho) e in Si-Joya, dall’inconfondibile profumo latino.

Il prolifico 1961 si aprì con la seduta di registrazione di Comin’Your Way in quintetto con il fratello Tommy e l’ormai collaudata sezione ritmica di Look Out!, dedicata all’esplorazione del song e alla proposizione di temi di compositori per varie ragioni apprezzati dal sassofonista, come Wild Bill Davis (in Stolen Sweets, tema che aveva già proposto nel set del suo primo disco inciso per la Time e che proporrà più avanti per la Scott in The Soul Is Willing) e Leon Mitchell (in Fine L’il Lass). Questi era un sassofonista di Philadelphia che era stato allievo di Jimmy Heath e Bill Barron, ma che ben presto si era concentrato sulla composizione e l’arrangiamento, diventando in quei primi anni ‘60 un A&R Director della Blue Note con l’incarico di ricercare musicisti nelle aree di Pittsburgh, Detroit e del profondo Sud, in possesso come Turrentine di un background di esperienze nelle band R&B e/o Rock&Roll e in grado di produrre nel jazz un feeling nuovo. Un soul-jazz adatto cioè a competere col monopolio del business legato a quei generi musicali. Il problema, particolarmente sentito dalle case discografiche indipendenti dedicate al jazz, come Blue Note, ma anche dalle oggettive esigenze professionali dei musicisti che vedevano costantemente assottigliarsi il pubblico del jazz e le conseguenti possibilità di lavoro, si estese, come noto, anche nei decenni successivi, in una battaglia condotta da produttori come Creed Taylor che, per quanto biasimati dalla critica per supposti esclusivi intenti commerciali, hanno saputo ritardare il progressivo depauperamento di popolarità del jazz, riuscendo comunque a produrre in diversi casi musica di qualità.

Mitchell supervisionò le registrazioni di alcuni musicisti messi sotto contratto, tra cui, appunto, Turrentine. Nel disco in questione spiccarono le riletture di ballate come Someone To Wach Over Me, There’ll Be Tired Of You e pregevole risultò il suo assolo sul vivace My Girl Is Just Enough Woman For Me, condito dall’immancabile blues feeling in grado sempre di fare la differenza.

441c89d3d0384bafa3346c95091682f3Il mese successivo Alfred Lion organizzò per Turrentine una seduta live al Minton’s Play House sfruttando l’intesa già messa a punto con la ritmica degli Us Three che nel periodo stazionava nel locale, proponendo l’aggiunta di un chitarrista proveniente da St Louis il cui talento stava prepotentemente emergendo. Si trattava di Grant Green, quasi ad attribuirgli il ruolo rivestito da Charlie Christian ad inizio anni ’40 in quella sorta di luogo di culto per la nascita del jazz moderno. Sul terreno comune e consolidato del blues e degli standard, Turrentine assieme ad un Grant Green in spolvero, diede vita ad un concerto di alto livello che andava ben oltre la tipica jam session, in cui si segnalarono le estese versioni di Broadway e Love for Sale. Parte di quel concerto pubblicato da Blue Note col titolo Up At Minton’s, Vol.1&2 è rimasto ancora inedito.

Dal giugno ’61, Turrentine inziò a incidere una serie di album (una quindicina tra Blue Note, Prestige, Impulse! e Atlantic) con Shirley Scott all’organo, in parte a suo nome e in parte a nome della moglie, in un connubio che durò sino al novembre ’68  e produsse in ordine cronologico: Hip Soul, Dearly Beloved, Hip Twist, The Soul Is Willing, Never Let Me Go, Soul Shoutin’, A Chip Off The Old Block. Hustlin’, Blue Flames, Everybody Loves a Lover, Queen Of The Organ, Let It Go, Ain’t No Way, Common Touch e Soul Song). Come già accennato, la formula che utilizzava l’organo Hammond al posto dell’usuale ritmica jazz si dimostrò congeniale al sassofonista sin dalla prima seduta con Jimmy Smith (peraltro replicata in Prayer Meeting, un eccellente Blue Note del 1963 che si rivelò anche migliore della precedente esperienza), oltre a conseguire nel periodo grande popolarità, sistematicamente sfruttata commercialmente dalle case discografiche interessate.

In Hip Soul (Prestige), Turrentine si presentò sotto lo pseudonimo di Stan Turner, per ovviare agli obblighi contrattuali in corso con Blue Note, comportandosi di fatto da leader per l’intero album e spiccando in assolo su By Myself, Stanley’s Time e su Out of This World, preso a tempo brillante e ben sostenuto dalla Scott.

R-3247713-1428030263-7969.jpegQualche giorno dopo si assistette alla replica per Blue Note in Dearly Beloved (con la Scott stavolta sotto lo pseudonimo di Little Miss Cott) in un disco davvero riuscito. Ira Gitler pose l’accento nelle note di copertina originali dell’album su come “la combinazione di sax tenore e organo potesse diventare nelle mani sbagliate uno dei sound più banali prodotti nella musica americana”, cosa che evidentemente non sembrò riguardare i due coniugi. Turrentine gettò qui lo sguardo anche oltre il blues in senso stretto, allargando la visuale sulla musica brasiliana (Baia di Ary Barroso), e manifestando un approccio “soul” più spinto nel song, come nella splendida versione di My Shining Hour (un’autentica scuola d’improvvisazione jazz), nell’ennesima di Yesterdays (incisa per la terza volta nello spazio di un anno e suonata sempre in modi differenti) e in Troubles of the World, uno spiritual interpretato con reverenza, senza cioè gli eccessi “gospel-funk” tipici del periodo.

Hip Twist (Prestige) ripeté la felice esperienza di Hip Soul, con Turrentine sugli scudi in Rippin’ an’ Runnin’, mentre con Z.T’s. Blues del settembre ’61 (ma pubblicato solo nel 1985) si tornò alla formula del quartetto in compagnia di Grant Green e una ritmica importante composta da Tommy Flanagan, Paul Chambers e Art Taylor per un disco principalmente dedicato agli standard ma privo forse del mordente di altri lavori del periodo. L’anno terminò con una sua presenza da sideman per Les McCann in Les McCann Ltd. In New York (Pacific Jazz), un incontro che darà i suoi migliori frutti in That’s Where It’s At, inciso con l’anno nuovo da Turrentine solo cinque giorni dopo quella seduta e che fissò, oltre che un dialogo perfetto tra i due sul terreno del blues e del soul, un suo apice discografico. McCann era del Kentucky e operava di base nell’area di Los Angeles, mentre Turrentine da tempo stazionava sulla East Coast; inoltre il pianista era sotto contratto con la Pacific Jazz, un competitor di Blue Note in un periodo nel quale le etichette indipendenti non vedevano di buon occhio le trasgressioni contrattuali, sebbene fossero ammessi scambi di cortesie reciproche. Tutti ostacoli alla definizione di un meeting che potesse mettere in comune due sensibilità “bluesy” e “soul” così spiccate e radicate nella profonda tradizione del jazz. Ciononostante, la temporanea presenza a New York del trio di McCann per un ingaggio al Village Gate, permise di raggiungere l’obiettivo prefissato in quella sede, con la relativa sequenza di reciproche incisioni testé descritta. Il set di brani vide il consistente contributo autorale di Les McCann che mise a disposizione quattro sue composizioni, tra cui una meravigliosa ballata, Dorene Don’t Cry, che diede la possibilità a Turrentine di distendersi in una interpretazione magistrale, pregna di soul feeling e in cui spuntò nitidamente l’influenza di Johnny Hodges, mentre Smile, Stacey vide il sassofonista inanellare chorus, uno migliore dell’altro, con uno swing e una fantasia davvero invidiabili. A quel 1962 relativamente povero dal punto di vista discografico si aggiunse il confronto con il collega Ike Quebec in Easy Living (peraltro non concepito come una tipica “blowing session” o “battle of sax”) e Jubilee Shout!, sebbene dischi pubblicati in realtà solo negli anni ’80. In entrambi i casi, si fece sentire la positiva presenza di Sonny Clark al piano, mentre il secondo lavoro rivelò un’altra eccellente prestazione del sassofonista che evidenziava una sempre più marcata matrice soul-jazz e un rafforzato ruolo nella scrittura di brani come Brother Tom (su rhythm changes) e Cotton Walk, un medium-slow blues affrontato in un rovente clima espressivo.

A-281313-1400824012-2227.jpeg(a sinistra Shirley Scott)

A inizio ’63 Kenny Burrell pensò bene di utilizzare la grande sensibilità blues di Turrentine per produrre uno dei suoi più noti e riusciti lavori come Midnight Blue, di gran successo anche per l’etichetta di Alfred Lion (esperienza poi replicata l’anno successivo in Freedom ma rimasta inedita sino al 1980 e pubblicata sul mercato americano solo nel 2011). L’intensa attività in sala d’incisione proseguì nel solco della formula organo-sax tenore tra gennaio e febbraio di quell’anno, con la partecipazione a The Soul Is Willing a nome della Scott, dove il sassofonista confermò le sue doti interpretative sulla canzone ritmata, piazzando uno dei suoi strepitosi assoli in Remember di Irving Berlin. La settimana successiva, la collaborazione coniugale produsse l’ottimo Never Let Me Go, stavolta a nome di Turrentine, in cui è d’obbligo segnalare una sua introspettiva e intensa versione della congeniale God Bless The Child, rivelando una consonanza di intenti musicali con la moglie pressoché perfetta. La Scott nella circostanza pose l’accento a Nat Hentoff (autore delle note di copertina) su una delle qualità musicali preferite del marito: “Quando Stanley suona è come se stesse cantando”, il che confermava quella caratteristica umana della sua voce strumentale, di cui si è già accennato, adatta a sostituire l’interpretazione “soul” della canzone pop americana allora in voga, con una di genere strumentale. Una qualità questa che è da collegare alle profonde radici del jazz, quella cioè che si rifà al canto sugli spirtuals e sui blues, che evidentemente musicisti come Turrentine sapevano trasferire perfettamente sul loro strumento. Peraltro, tale “cantabilità” sarà sfruttata a fondo anche nei decenni successivi da abili produttori come Creed Taylor nei dischi CTI di Grover Washington Jr., Hank Crawford e dello stesso Turrentine, sino ad arrivare ai sassofonisti della cosiddetta fusion e dello smooth jazz. A tal proposito, sempre Gualberto puntualizzava nello scritto già citato: ”Non piccola parte di quello che è stato definito “fusion” o, infine, “smooth jazz” ha voluto modellare l’uso dell’improvvisazione sugli schemi della canzone “pop”, sostituendo la voce umana con quella di un solista strumentale e creando un connubio fra strumentazione jazzistica, tecniche di produzione prelevate dal mondo dell’industria musicale e estetica di derivazione R&B nettamente africano-americana: non casualmente, il repertorio non consisteva di pagine di matrice jazzistica ma tendeva a ospitare anche rielaborazioni di materiali appartenenti al repertorio R&B. Laddove il solista in un contesto jazzistico tendeva a fare uso della forma e della struttura armonica di un lavoro come punto di partenza per la (ri)composizione istantanea, non di rado il solista nel contesto crossover tendeva a prodursi in una serie di abbellimenti, onde permettere la “riconoscibilità” del tema, soprattutto laddove si presentavano temi noti del repertorio R&B”.

 

r-2862193-1351810781-7825-jpegL’attività discografica di quell’anno sino all’inizio del successivo riprese solo a ottobre, sempre nell’ormai collaudatissimo ambito formale con la Scott e diede cospicui frutti: Soul Southin (Prestige) a nome della moglie, A Chip Off The Old Block e Hustlin’ per Turrentine. Di Soul Southin non si può omettere, ad esempio, la memorabile prestazione solistica del tenorsassofonista in Deep Down Soul, un concentrato di frasi pregne di blues feeling che costituirebbero un fiore all’occhiello per qualunque grande dello strumento, mentre A Chip Off The Old Block è un prezioso disco dedicato principalmente alla musica dell’orchestra di Count Basie anni ’50 e ad un paio di splendide composizioni di uno dei suoi migliori arrangiatori, Neal Hefti. Una scelta per nulla casuale, giacché l’orchestra di Basie era, tra tutte le orchestre del periodo Swing, quella più radicata nella tradizione del blues, oltre che una macchina ritmica perfetta, caratterizzata dall’uso sistematico del riff. Era cioè dotata degli stessi riferimenti di base e perseguiva analoghi obiettivi di Turrentine, solo pensati in decenni diversi e adattati dal sassofonista nell’alveo di un soul jazz più propenso alle piccole formazioni. Nel caso specifico, si trattò di un quintetto (ma in prima istanza doveva essere un settetto, con trombone e sax baritono aggiunti e arrangiamenti di Duke Pearson) completato da Blue Mitchell alla tromba (una vecchia conoscenza dai tempi con Earl Bostic), che affrontò brani simbolo come One O’Clock Jump, Midnight Blue e Cherry Point con un brio esecutivo, un piglio ritmico ed espressivo in grado di non far rimpiangere, almeno sul piano solistico, l’inimitabile resa dell’orchestra basiana. In Hustlin’ si ripropose la felice intesa con Kenny Burrell in un album equilibrato, nel quale spiccarono la parte solistica in The Hustler, un blues composto dal sassofonista, e l’interpretazione “bluesy” di Love Letters. Con Blue Flames (Prestige) del marzo ’64, il duo Scott-Turrentine ritornò alla formazione base in quartetto, con i fidati Bob Cranshaw al contrabbasso e Otis Finch alla batteria, mantenendo alto il rendimento, per quanto cominciasse a trasparire un eccesso di sfruttamento di quella formula da parte delle case discografiche. E’ interessante notare qui l’attenzione di Turrentine per le composizioni di due grandi colleghi come Sonny Rollins (non comune la scelta di Grand Street) e Benny Golson (in Five Spot After Dark).

Diventa necessario a questo punto collocare nel suo contesto storico questo tipo di proposta, cioè nel momento in cui il Free con i suoi maggiori protagonisti (Coltrane, Shepp, Ayler, Sanders, per citare solo i colleghi tenorsassofonisti) e le relative istanze “rivoluzionarie” stavano dominando la scena jazz, riscuotendo l’attenzione quasi esclusiva della critica dell’epoca. In un periodo nel quale diversi musicisti avevano iniziato a seguire una serie sorprendente di discipline extra musicali e una sorta di missione personale in musica, quando in molti consideravano ormai “jazz” e “rivoluzione” termini intercambiabili, Stanley Turrentine, insieme ad altri, era invece in prima linea nel continuare a credere nella forza della melodia e della canzone come mezzi di rielaborazione ed estensione della propria tradizione musicale, senza ritenere inevitabile il rincorrere le iconoclastie in corso.  Un diverso modo di interpretare la propria contemporaneità, peraltro maggioritario, che è stato per troppo tempo sottostimato negli esiti, se non sbrigativamente derubricato come semplice atteggiamento conservatore, o svenduto al business discografico, rischiando così di ridurre il jazz e la sua storia al contributo esclusivo di un ristretto gruppo di pur grandi musicisti, artisticamente “accettati” da un altrettanto esclusivo manipolo di fruitori. Un atteggiamento questo culturalmente discutibile, che ha probabilmente contribuito, tra l’altro, a determinare il progressivo allontanamento del pubblico dal jazz.

Dell’estate del ’64 sono due album che, anche a causa di un surplus d’incisioni in corso, vedranno la pubblicazione solo nel 1980. Si trattava di In Memory Of e Mr. Natural, lavori privati stavolta della presenza della Scott e che videro Turrentine tornare al classico hard-bop di quegli anni proposto da Blue Note, con la presenza, in formazioni allargate a settetto e sestetto, di Blue Mitchell e Herbie Hancock (che aveva appena completato un anno alle dipendenze di Miles Davis) in un caso, e di Lee Morgan e Mc Coy Tyner, nell’altro. In Memory Of conteneva un repertorio abbastanza diverso dal solito, in cui si distinsero due belle composizioni di Randy Weston (In Memory Of, appunto, proveniente dall’album High Life del pianista, e Niger Mambo) e Fried Pies, un blues di Wes Montgomery tratto dal suo Boss Guitar. I brani si caratterizzarono per i magistrali assoli di Turrentine e segnalarono al sassofonista la duttilità di due grandi pianisti dei cui servigi non si sarebbe privato anche in futuro. E’ da segnalare in Mr. Natural anche la presenza inedita per Turrentine (ma forse anche per il jazz) di un brano di Lennon/Mc Cartney come Can’t Buy Me Love, in coerenza peraltro con il discorso appena accennato circa l’intreccio e la continua ricerca in ambito pop di materiale da parte dei jazzisti, su cui poter sbizzarrire la propria capacità interpretativa. In seguito si ritornò alle incisioni in quartetto con e per la Scott, che nel frattempo si era accasata alla Impulse! di Bob Thiele, producendo Everybody Loves A Lover, parzialmente influenzato dai ritmi latini, un po’ inflazionati in quegli anni e The Queen of The Organ, uno dei suoi migliori album incisi al fianco del marito e contenente, tra molto altro di citabile, una versione di Just in Time arricchita da un fenomenale assolo del sassofonista per swing e fraseggio serrato e una nuova versione ancora più efficace del suddetto brano dei Beatles.

Dalla fine del 1964 in poi, Turrentine inaugurò anche un diverso ciclo di progetti discografici, sia nella veste da leader sia da sideman, pensati con il supporto di formazioni più estese e nelle quali si avvalse di grandi arrangiatori come Oliver Nelson e Duke Pearson (che da tempo bazzicavano con sapienza orchestrale intorno al blues e al soul-jazz), utilizzando jazzisti di prima fascia: dagli ottetti sino a vere e proprie big band. Tra questi, il primo lavoro fu per uno dei dischi più particolari e sottovalutati incisi per Blue Note da Donald Byrd, quell’I’m Tryin’ to Get Home che godette oltre che della presenza di una big band arrangiata da Pearson, anche di un coro di otto voci condotto da Coleridge Perkinson, un pianista e direttore musicale che aveva già contribuito a realizzare per Max Roach progetti analoghi in album come It’s Time!

In un clima fortemente soul (con il mantenimento non casuale dell’organo suonato da Freddie Roach) si cercò di produrre un nuovo modo di proporre quella musica (non a caso sottotitolato “A New Perspective”) secondo un esperimento che peraltro non ebbe poi gran seguito. Turrentine riuscì come suo solito a conquistarsi spazio solistico con validi interventi nel brano che dava il titolo al disco e in March Children.

615464HEA3L._SY355_Il sassofonista divenne l’artista da vetrina in Joyride, una sessione di registrazione dell’aprile ’65 concepita sullo sfondo di un’orchestra di All-Stars diretta dalla sapiente penna di Oliver Nelson, che dimostrò di essere perfettamente a proprio agio con una scrittura molto “funky” degli arrangiamenti, adattissima alla forte pronuncia blues di Turrentine. Nelson era anch’egli un ottimo sassofonista e dunque la scelta nel ruolo di arrangiatore per Turrentine parve quanto mai azzeccata, come ammise pubblicamente lo stesso sassofonista.

Da segnalare nel set di composizioni prescelte il significativo utilizzo di una canzone del cantautore R&B Percy Mayfield, River’s Invitation, che in quella versione divenne un hit. Mayfield aveva già una lunga carriera alle spalle da cantante ridotta a quella di valido compositore nel 1952, dopo un brutto incidente stradale subito che gli lasciò il volto deturpato. Aveva la particolarità rispetto ad altri cantanti R&B di rivolgersi prevalentemente ad un pubblico nero e in quegli anni ’60 aveva acquisito fama da compositore passando alcuni suoi temi portati alla celebrità da Ray Charles, tra cui Hit The Road Jack. La scelta di Turrentine fu perciò sintomatica (come peraltro per molti altri jazzisti del periodo) con l’intenzione di rivolgersi all’ambito musicale più popolare, al fine di riconquistare il pubblico nero al jazz, obiettivo che fu perseguito negli anni successivi, sino al suo avvento nella CTI di Creed Taylor e oltre.

L’anno seguente vide la momentanea interruzione della sequenza di registrazioni per Blue Note con l’occasionalità di un’incisone in aprile per Impulse! (Let It Go), dove si ripropose la collaudata formula con la Scott. Un disco compatto e in linea con la miglior produzione dei due, in cui spiccarono la felice rivisitazione di T’Ain’t What You Do, un hit della orchestra di Jimmy Lunceford anni ’30 scritto dal grande Sy Oliver e Ciao, Ciao, un “original” (nella classica forma AABA a 32 bars) in cui il sassofonista liberò in assolo tutta la sua inconfondibile carica blues.

Da Rough ‘N Tumble del luglio ’66, venne ripresa in modo costante la collaborazione con Duke Pearson e i suoi arrangiamenti per formazioni allargate (in quegli anni Pearson ha fatto anche da direttore artistico/produttore per Blue Note) che proseguirà felicemente nei successivi The Spoiler, A Bluish Bag (pubblicato solo nel 2007), The Return of The Prodigal Son (pubblicato nel 2008), The Look Of Love, ma anche per conto dello stesso Pearson in The Right Touch. Turrentine, con l’ottetto di grandi jazzisti proposti nel disco, parve spingere più decisamente verso l’utilizzo di temi dal bacino popolare, interpretati strumentalmente anziché vocalmente. Ben quattro dei sei brani di Rough ‘N Tumble erano infatti di provenienza pop, soul, o R&B. Si trattava di Shake di Sam Cooke, Walk On By di Burt Bacharach e resa celebre da Dionne Warwick, And Satisfy del pianista Ronnell Bright ma cantata da Nancy Wilson (di cui era nel periodo il pianista e l’arrangiatore) e What Could I Do Without You di Ray Charles, forse il punto più alto dell’incisione. Da notare che Turrentine diverrà uno dei più sensibili interpreti strumentali delle composizioni di Bacharach, proponendo nei successivi lavori sue ragguardevoli versioni anche di What The World Needs Now Is Love, The Look Of Love, The Guy Is In Love With You e (There’s) Always Something There.

r-1001280-1369082501-9778-jpegA tal proposito occorre sottolineare come i temi di Burt Bacharach rappresentassero una fonte d’ispirazione molto frequentata dai grandi interpreti vocali e strumentali del periodo, nobilitandone il geniale lavoro compositivo. Le sue innovative ballate ritmate permisero ai massimi interpreti della musica popolare afro-americana di quegli anni, come Isaac Hayes, Aretha Franklin, Stevie Wonder e Luther Vandross, tra gli altri, di sviluppare un nuovo approccio interpretativo molto virile, a volte persino “erotico”, gli stessi tratti che si potevano peraltro riscontrare nella sonorità corposa e densa di umori blues e soul di sassofonisti come Turrentine. Le canzoni di Bacharach infatti si caratterizzavano, oltre che per le belle melodie, per la presenza di progressioni insolite di accordi in ambito pop, con sorprendenti ritmi sincopati, fraseggi irregolari, modulazioni, cambi di metro, etc., tutte peculiarità che si adattavano bene alla concezione musicale dei cantanti e degli improvvisatori afro-americani. Easy Walker risultò un intermezzo in quartetto tra queste incisioni, in cui Turrentine prese magnifici assoli in un clima di grande intesa e relax ritmico, favorito dal magistero di Mc Coy Tyner nel “comping”, lodato dallo stesso sassofonista in un dialogo condotto con Nat Hentoff. Ne uscì una sessione divertente che affrontava in gran scioltezza un repertorio relativamente “easy”, come suggeriva anche il titolo del disco, tra composizioni di Hank e Buddy Johnson (lo stesso di Since I Fell For You), Bacharach e Billy Taylor. Turrentine suonò qui da par suo persino una melodia da operetta come Yours Is My Heart Alone di Franz Lehar (il compositore de La Vedova Allegra e de Il Paese del Sorriso, da cui è tratta l’aria suonata, nota nella versione italiana come “Tu che m’hai rubato il cuor”) così estranea alla propria cultura musicale, il che ribadiva una volta di più l’intrinseca qualità del jazz e dei grandi improvvisatori nel saper elaborare qualsiasi genere di materiale musicale.

Con The Spoiler, inciso nel settembre ’66, si riprese il lavoro con l’ottetto di All Stars (tra cui spiccavano i nomi di Blue Mitchell, James Spaulding, Julian Priester, Pepper Adams e Mc Coy Tyner) arrangiato da Pearson, a sostegno del prorompente solismo di Turrentine. La scelta del materiale su cui improvvisare insistette ancora una volta sulle più disparate fonti popolari, alla ricerca in particolare di melodie già affrontate da cantanti e sulle quali improvvisare. Maybe September, ad esempio, era una ballad tratta dal film “The Oscar”, proposta in seguito all’ascolto della versione di Tony Bennett, mentre You’re Gonna Here From Me proveniva dalla penna di Andre Previn, un tema appena uscito ad inizio anno e che sembrava già possedere i crismi dello standard. Uno sguardo fu dedicato anche al passato canoro con When The Sun Comes Out, ispirata alla versione di Peggy Lee accompagnata dall’orchestra di Benny Carter e ascoltata da Turrentine in occasione di una sua esibizione al Basin Street East. La Fiesta, sentita addirittura a Panama nel 1960 da una band locale e infine Sunny, scritta dal cantante e chitarrista Bobby Hebb, ascoltato al Blue Morocco di New York.

A Bluish Bag e The Return of the Prodigal Son furono due ottime incisioni del 1967 assai scorrevoli all’ascolto e rimaste a lungo inedite, entrambe eseguite da formazioni allargate a dieci elementi. La prima fu realizzata sulla base di due diverse sedute di registrazione (febbraio e giugno) e si compose di temi di diversa origine, con prevalenza per la musica brasiliana (She’s Carioca, Samba da Aviao di A.C. Jobim e una rimarchevole Manha De Carnaval) e temi di Henri Mancini tratti da colonne sonore di film di recente uscita (una ben arrangiata Days of Wine and Roses, Silver Tears e A Bluish Bag). Analogamente, la seconda pervenne da due differenti sessioni (giugno e luglio) con un repertorio come sempre composito: il brano che dava il titolo al disco del poco conosciuto ma valido collega Harold Ousley, l’insolito Bonita di Jobim, ma soprattutto andando a pescare a piene mani nel repertorio pop, soul e R&B, tra Dr. Feel Good di Aretha Franklin, New Time Shuffle di Joe Sample dei Jazz Crusaders, The Look of Love di Bacharach, You Want Me to Stop Loving You di Wild Bill Davis e un hit come Ain’t No Mountain High Enough scritto da Nickolas Ashford e Valerie Simpson nel 1966 per l’etichetta Motown e portata al successo nel 1967 da Marvin Gaye e Tammi Terrell. Fa eccezione nel set prescelto uno splendido omaggio al jazz più swingante scritto dallo stesso Turrentine in Pres Delight.

THE RI2La collaborazione all’interno di Blue Note tra Turrentine e Duke Pearson si completò in quel 1967 con The Right Touch, sempre con un ottetto ma stavolta sotto la leadership del pianista/arrangiatore, che riuscì a realizzare qui una delle sue migliori incisioni. Un’eccellente prova per entrambi, con Turrentine in bella evidenza nei soli eseguiti in Los Malos Hombres e Scrap Iron.

L’inizio del 1968 vide nuovamente una sua apparizione da sideman per Jimmy Smith su Stay Loose (Verve), un disco ormai votato a un soul assai prossimo al funk e dove il nostro prese significativi assoli in One For Members e Grabbin’ Hold, mentre assai più importante e incisivo fu il suo occasionale ingresso in febbraio nel quintetto hard-bop di un Horace Silver sempre più spinto verso il soul. Assieme a uno splendido Charles Tolliver nella front-line, la seduta di registrazione produsse una facciata di Serenade To A Soul Sister, probabilmente la migliore delle due. Turrentine, specie nel brano che diede il titolo al disco, andò ben oltre il trovarsi a proprio agio, rivelando un’intesa musicale e di intenti con Silver quasi simbiotica. Non a caso nelle note di presentazione del disco redatte dallo stesso pianista, Silver definì senza mezzi termini Turrentine: “un gigante del suo strumento e l’epitome del soul”.

The Look of Love terminò la sequenza di album incisi per Blue Note su un repertorio più easy listening e con formazioni allargate arrangiate in gran parte ancora da Pearson (solo in un paio di brani sostituito da Thad Jones), con l’aggiunta di una formazione d’archi che non condizionò più di tanto le prestazioni del sassofonista su temi come Cabin in The Sky, A Beautiful Friendship e la title track. Sulla stessa linea risultò Always Something There, stavolta con gli arrangiamenti sotto la piena responsabilità di Thad Jones e con un set di brani a larga maggioranza provenienti dal pop del periodo: tra il frequentatissimo Light my fire di Jim Morrison, Stoned Soul Picnic di Laura Nyro e un paio di brani dei Beatles.

Le critiche che sono state avanzate alla produzione più popolare di questo periodo del sassofonista (e a maggior ragione per quella successiva anni ‘70e ’80), potrebbero essere in parte simili a quelle già fatte in altre occasioni nel passato discografico del jazz. Ad esempio, a buona parte della produzione di Louis Armstrong dagli anni ’30 in poi, o alle numerose incisioni con gli archi dalle quali sono passati pressoché tutti i giganti del sassofono di ogni epoca, peraltro poi in buona sostanza rivalutate. Una ripetitiva esperienza che avrebbe dovuto favorire un cambio di prospettiva critica, riflettendo maggiormente sui diversi aspetti della cultura musicale americana e sui relativi legami col mondo dell’entertainment e dell’industria discografica. Limitando le analisi alla banale stigmatizzazione dello sfruttamento economico sulla musica di tanti grandi jazzisti, non si è contribuito a comprendere a fondo le dinamiche di certi sviluppi e le relative strategie linguistiche, incorrendo in arbitrarie e generiche amputazioni su una non trascurabile fetta di musica improvvisata comunque legata al jazz.

Verso la fine dell’estate di quell’anno Turrentine incise gli ultimi album in formazioni ridotte con la moglie Shirley Scott (dalla quale poi si separò coniugalmente nel 1971): Common Touch a suo nome e il meno riuscito Soul Song della Scott. Si notarono dei cambi importanti nelle formazioni, con l’ingresso di chitarristi come Jimmy Ponder (debitore di Wes Montgomery) ed Eric Gale, di estrazione jazz ma con lo sguardo rivolto verso quel bacino popolare cui il sassofonista stava insistentemente guardando, e di batteristi come Ray Lucas, Idris Muhammad, o Bernard Purdie. Nel repertorio si introdussero temi come Blowin’ In The Wind (un brano di Bob Dylan reso popolare dalla versione di Sam Cooke e presente in entrambi i lavori) e pagine all’altezza delle cose migliori del sassofonista in Living Through It All e lo stesso Common Touch.

Another Story e Ain’t No Way, entrambi registrati nel 1969 (con il secondo uscito però solo nel 1981), documentarono invece un ritorno alle formule dell’hard-bop/soul-jazz e a repertori jazzisticamente più “ortodossi”, interpretati rispettivamente da un quintetto con Thad Jones al flicorno e un quartetto con ritmiche composte da jazzisti di primo livello come Cedar Walton o il prediletto Mc Coy Tyner al piano, Buster Williams o Gene Taylor al contrabbasso, Mickey Rocker o Billy Cobham alla batteria.

CTI(Creed Taylor party,front)Il 1970 fu per Turrentine l’anno del passaggio contrattuale dalla Blue Note alla CTI di Creed Taylor. Un rapporto quadriennale che produsse nell’ordine Sugar, Gilberto with Turrentine (con Astrud Gilberto), Salt Song, The Sugar Man (ma realizzato nel 1975), Cherry (con Milt Jackson), Freddie Hubbard/Stanley Turrentine In Concert Vol.1&2 e Don’t Mess with Mister T, frutti che col tempo hanno dimostrato di possedere meriti musicali andati oltre il semplice riscontro commerciale. Gualberto nel suo scritto rilevava circa la generalità della produzione CTI del periodo: ”… In un tale tipo di produzione veniva, ovviamente, a mancare in larga parte l’interplay – tipico del contesto improvvisativo – fra i varî musicisti: gran parte dell’arrangiamento era inciso a parte, e i solisti sovraincidevano i loro contributi. Inoltre, il complesso orchestrale di supporto, che in genere era formato da un gruppo stabile che partecipava ad ogni incisione, era agli ordini del produttore: questi decideva arrangiatori e solisti e aveva un ruolo decisionale primario. Questo fu il modello in larga parte adottato da Creed Taylor, produttore indubbiamente geniale che, prima alla Verve poi alla CTI (Creed Taylor, Inc.), seppe precorrere la cosiddetta fusion, creando un rapporto –peraltro ben più creativo e riuscito di quanti molti vogliano riconoscere- fra jazz e mercato che molti hanno sempre reputato impossibile. Taylor credeva alla possibilità di “allargare” il pubblico del jazz (in effetti, non poche fra le sue incisioni per la Verve, la A&M e la CTI scaleranno più volte le vette delle classifiche americane), puntando eminentemente su una rivisitazione esplicitamente “funky” del cosiddetto soul-jazz e su di un connubio – certamente e coscientemente patinato – fra pagine popolari e rilettura semi-improvvisata (in non poche incisioni della CTI l’arrangiamento – quasi sempre di eccellente fattura – aveva spesso un ruolo preponderante rispetto al solismo) in cui giocavano un ruolo molteplici linguaggi popolari correnti, dal rock al R&B, sottoposti ad un processo di astuta “jazzificazione”…”. Tuttavia, i nuovi lavori registrati da Turrentine non mostravano particolare incoerenza estetica o discontinuità di rilievo col passato discografico del sassofonista. Per certi versi alcuni degli ultimi album registrati per Blue Note sembravano più orientati al pop di quelli pubblicati per CTI, che invece evidenziavano ancora una certa continuità con l’’hard bop del decennio precedente e lo stesso Turrentine di sempre in assolo. In questo senso, la presenza di Freddie Hubbard (l’altro jazzista di punta scelto per rappresentare al meglio il nuovo corso estetico dell’etichetta), era sintomatica. Solo il materiale tematico era relativamente più semplice e diretto all’orecchio dell’ascoltatore e il prodotto discografico, nel suo complesso, più definito e stilizzato in termini di marketing, ma la qualità musicale rimaneva tutt’altro che disprezzabile. Un disco fondamentale per il successo di CTI come Sugar, il cui brano eponimo divenne un hit, non aveva in realtà nulla da invidiare alla precedente produzione: un soul-jazz velatamente “elettrificato” e progressivamente tendente al funk, pregno come sempre di blues feeling e ben suonato da jazzisti di primo livello, come George Benson, Ron Carter e lo stesso Hubbard. Da rilevare come Turrentine abbia affrontato qui un brano come Impressions dimostrando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, una propria precisa identità stilistica nel suonare un autentico tema simbolo di Coltrane, senza cioè farsi condizionare dal suo approccio improvvisativo e dalla sua versione pressoché definitiva. Il tutto in un periodo nel quale era difficile rintracciare anche solo un sassofonista che non ne fosse in qualche modo influenzato e, al tempo stesso, un appassionato del jazz disposto ad apprezzare una versione così differente. Un approccio più funky, tendente al “crossover”, si rivelerà nelle esibizioni dal vivo rispetto a quelle relativamente più “fredde” registrate in studio, sempre in compagnia della pirotecnica tromba di Freddie Hubbard, come si evinse nella versione “live” di Sugar e nei due volumi intitolati Freddie Hubbard/Stanley Turrentine In Concert.220px-The_Sugar_Man

Salt Song, dell’anno successivo, oltre a proporre il notevole jazz-funk di Gibraltar (scritto da Hubbard) e il traditional I Told Jesus, si avventurò nei territori della musica brasiliana, utilizzando due temi scritti da Milton Nascimento (oltre a quello del titolo, Vera Cruz, presente solo nella versione in CD e originariamente pubblicato nel disco di Astrud Gilberto e poi su The Sugar Man), avvalendosi degli arrangiamenti di Eumir Deodato. Cherry si distanziò anch’esso pochissimo dall’alveo del jazz, documentando un buon incontro tra Turrentine e Milt Jackson sul terreno di un repertorio classico, composto da Speedball di Lee Morgan, I Remember You e il vecchio standard di Don Redman richiamato nel titolo, completato con due brani dell’oggi misconosciuto pianista e compositore Weldon Irvine, dei cui pregevoli temi in quegli anni si servirono in realtà diversi jazzisti (tra cui Horace Silver in Liberated Brother, presente su In Pursuit of the 27th Man). Don’t Mess With Mister T del ‘73 rispetto a questi lavori si indirizzò più chiaramente verso melodie pop interpretate strumentalmente e supportate da opulenti arrangiamenti con gli archi a cura di Bob James. Tra brani di Marvin Gaye, Michel Legrand e un paio di originali del sassofonista, spiccò la sua interpretazione di I Could Never Repay Your Love di Bruce Hawes (noto autore/produttore dell’industria discografica e di colonne sonore, che ha composto canzoni per gruppi/artisti “black” come The Spinners, Dionne Warwick, Gladys Knight & The Pips, tra gli altri), con interventi solistici sostanzialmente in linea con il suo credo estetico e le sue prestazioni precedenti. Da notare come il tema di Michel Legrand, Pieces of Dreams, inizialmente non fu pubblicato, divenendo il pomo della discordia tra CTI e il sassofonista, che decise nel 1974 di rompere i rapporti professionali con l’etichetta a favore della Fantasy. La nuova casa discografica pubblicò come disco d’esordio proprio un album con quel titolo, ottenendo un riscontro commerciale senza precedenti per Turrentine, mentre CTI cercò di “rimediare” pubblicando la propria versione in The Sugar Man, registrata in realtà nel 1973. Al di là dei lussureggianti e morbidi arrangiamenti d’archi, il sax di Turrentine svetta luminoso sulle note della bella melodia di Legrand, fornendo un’idea poi non così peregrina di quello che verrà più tardi definito come “smooth-jazz”.

Il periodo che va da Pieces of Dreams, pubblicato nel 1974, sino a Home Again uscito per Elektra nel 1982 (in tutto una dozzina di dischi) vide Turrentine virare nettamente su una produzione e un pubblico più “pop-oriented” con il suo sassofono inserito in background orchestrali di viole e violini, o in ritmi funk tendenti alla disco-music. Insomma una vera e propria pietra dello scandalo che ha fatto definitivamente dire a critici, puristi e oppositori a vario titolo come il sassofonista di Pittsburgh fosse ormai compromesso e probabilmente perso per il jazz.

Senza voler cedere a forzati revisionismi o improbabili rivalutazioni integrali di tali lavori, un ascolto approfondito e attento potrebbe tuttavia far emergere elementi di coerenza e continuità con il lavoro precedente e pure qualche inaspettata perla musicale. Innanzitutto, in questi dischi Turrentine è sempre se stesso, cioè il suo stile sullo strumento rimane sostanzialmente immutato: voce stentorea, attenzione per le belle melodie, interventi solistici sempre efficaci, per quanto un po’ studiati e ridotti a qualche abbellimento rispetto al passato. Giusto per raffronto, si potrebbe riascoltare una qualsiasi opera dei decenni precedenti, o successivi, per scoprire come il suo stile e la sua impostazione di base non siano mai realmente mutati.

R-682329-1220489357.jpegLa presenza di arrangiamenti preconfezionati, abbastanza edulcorati, attorno al suono del suo sax certamente non aiutò a ricevere buone critiche, ma quella sorta di scomunica dal mondo del jazz cui andò incontro a quel punto della sua carriera parve eccessiva, sebbene produzioni analoghe del periodo di un altro maestro come Sonny Rollins (si pensi a dischi come The Way I Feel) non subissero analogo trattamento. Un atteggiamento critico questo poi mantenuto anche per registrazioni più “jazz-oriented” presenti nei successivi titoli del suo catalogo e per lo più ignorate. Al di là degli intenti commerciali, Turrentine in verità ha sempre rifiutato d’essere musicalmente incasellato in un preciso ambito, preferendo mescolare diversi generi. Nel corso dei decenni ha rivolto spesso lo sguardo oltre il jazz in senso stretto, cioè verso la musica popolare di ogni epoca, ai suoi migliori autori e ai suoi grandi interpreti vocali. Da Sam Cooke a Marvin Gaye, da Bobby Womack a Barry White, da Earth Wind & Fire agli Ohio Players, da Burt Bacharach a Stevie Wonder, da Michel Legrand a Claus Ogerman e tanti altri ancora, egli seppe attingere in quegli anni a diverse fonti, aggiornando di continuo il proprio repertorio e senza sentirsi in obbligo di dover rivolgere lo sguardo al pubblico più snob del jazz. Scorrendo i titoli degli album di quel lungo periodo e i brani ivi contenuti si ritrovano i successi di ogni epoca: da All by Myself a Birdland dei Weathet Report, da Reasons e After The Love Has Gone degli Earth Wind & Fire a Theme from Shaft di Isaac Hayes e via discorrendo, ciascuno interpretato comunque con la propria cifra stilistica. Un ruolo importante per il successo di quegli album fu da assegnare anche ad autori e arrangiatori come Gene Page, Wade Marcus (arrangiatore nel jazz di pagine come Silver’n Brass di Horace Silver e, guarda caso, The Way I Feel di Sonny Rollins) o Claus Ogerman, in possesso di un bagaglio di esperienze e credenziali in quel settore di tutto rispetto. Tra il diverso materiale pubblicato (talvolta un po’ datato a livello di sound complessivo), si possono comunque gustare suoi ottimi assoli, votati al funky in There is a Place (Rita’s Theme), Many Rivers to Cross, Hope That We Can Be Together Soon, tutti presenti in Everybody Come On Out (1976), un disco realizzato con il contributo di musicisti del livello di Joe Sample, Oscar Brashear, Buddy Collette, Dorothy Ashby, Lee Ritenour, Paul Jackson e Harvey Mason. In The Man with the Sad Face (1976) emersero I Want You e Whatever Possess’d Me, un omaggio questo alla vena melodica di Tadd Dameron, che riportava la memoria alla sua giovanile esperienza con una delle migliori menti compositive del be-bop. Arrangiamenti con archi e cori su un tipico ritmo disco-dance del periodo, come in Love Hangover, non condizionarono più di tanto la sua impareggiabile fantasia, soprattutto ritmica, in improvvisazione. Nightwings (1977) e West Highway Side (1978), furono lavori interessanti, arrangiati non a caso da un maestro come Claus Ogerman, con Turrentine che rinnovò in Papa T il suo mai sopito ruolo da compositore e splendido interprete del blues. What About You! contenne prestazioni del sassofonista paragonabili alle sue cose migliori in Feel The Fire e My Wish For You, dove dimostrò di essere sempre un maestro degli abbellimenti melodici, mentre Use The Stairs (1980), ultimo lavoro per Fantasy, vide il ritorno ad un repertorio di vecchi standard, tra aggiornate versioni di Georgia on My Mind, The Lamp is Low, On a Misty Night e Jordu.

La successiva produzione Elektra più orientata verso un funk orchestrale non fu da meno e si adattò ancor meglio alla pronuncia e al timbro del sassofonista, elementi rilevabili ad esempio in dischi come Inflation (1980), prodotto da Larry Dunn degli E.W.&F e arrangiato ancora da Wade Marcus, o Home Again (1982).

La ripresa dei rapporti con Blue Note si materializzò con tre album da leader incisi tra il 1984 e il 1989 e un paio di collaborazioni per Freddie Hubbard (Life Flight1987) e Jimmy Smith (eccellenti le prestazioni del sassofonista in Go For Watcha Know -1986, ritornato qui senza remore al jazz canonico). I tre dischi a suo nome si rivelarono tutti di pregevole fattura, in particolare La Place (1989), basato in gran parte su un repertorio fornito dal pianista e compositore Bobby Lyle (ma anche direttore musicale e produttore molto apprezzato tra gli artisti del soul-jazz, funk e smooth jazz), impose ancora un Turrentine solista di gran classe e impareggiabile interprete di melodie.

519xccuojfl-_sy300_Forse il progetto più originale fu Wonderland (1986), a parere di chi scrive tra le cose più interessanti nella discografia del sassofonista nell’ultimo periodo e tra i migliori progetti in assoluto realizzati da un jazzista sulle musiche di Stevie Wonder, poiché trasuda profonda conoscenza dell’autore e amore vero per la sua musica, oltre a evidenziare una compatibilità idiomatica tendente alla simbiosi, davvero rara da riscontrare tra autore e interprete. Non a caso lo stesso Wonder partecipò all’incisione con la sua armonica in una superba versione di Boogie On The Reggae Woman.

Tra le collaborazioni di quegli anni va assolutamente segnalato Gene Harris Trio Plus One (1985 – Concord Jazz), una felice rimpatriata dai lontani tempi di Blue Hour con Gene Harris e il suo magnifico trio, completato da Ray Brown e Mickey Rocker. Su un set di temi prettamente jazzistici, i due maestri dialogarono sul comune terreno del blues con immutata intesa e grande freschezza esecutiva.

Nelle incisioni degli anni ’90 pubblicate per l’etichetta Music Master, Mister T (uno dei nomignoli con cui venne spesso appellato) sembrò voler “tornare a casa”, ossia al jazz più ortodosso, producendo titoli come More Than A Mood (1992) (con Cedar Walton, Ron Carter e Billy Higgins), If I Could (1993) (con Sir Roland Hanna, Ron Carter e Grady Tate) e T Time (1995) (con Kenny Drew Jr. e Dave Stryker). In quest’ultimo lavoro, più “funky” rispetto agli altri, Turrentine riprese in versioni rinnovate alcuni hit della sua più recente carriera, come Don’t Mess with Mister T di Marvin Gaye, Terrible T e Touching di Bobby Lyle e una ulteriore versione di Impressions, mentre Do You Have Any Sugar?, edito nel 1999 da Concord Jazz, fu l’ultimo suo disco pubblicato che ripropose invece un sound e un repertorio più in linea con le precedenti esperienze discografiche.

Turrentine ha vissuto in quegli anni ’90 a Fort Washington, Maryland sino alla morte, avvenuta a sessantasei anni a New York il 12 settembre 2000 a seguito di un ictus e alla conclusione di una carriera di successo, contrassegnata anche da ben quattro nomination ai Grammy. Una carriera nella quale ha saputo cavalcare diversi generi musicali conservando una propria precisa idea di musica e un’inconfondibile cifra stilistica profondamente radicata nel blues e nella propria tradizione musicale. A suo modo e al di là dei benefici ottenuti nel periodo di maggior riscontro commerciale, egli ha sempre saputo mantenere una sua coerenza e un alto livello musicale nelle improvvisazioni, confermandosi costantemente uno dei più grandi tenorsassofonisti della storia. A dimostrazione che ciò che denominiamo “jazz” è una realtà incalcolabilmente più vasta, ramificata e complessa di quanto non si è soliti pensare, la cui comprensione sembra essere ancora largamente incompleta. Una realtà nella quale c’è ancora molto da scoprire, riscoprire, narrare e interpretare.

Riccardo Facchi

[1] Fusion, Jazz Funk e Jazz-rock, lo sterco del Demonio

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