FREE FALL JAZZ

Dall’ultimo ‘Vista Accumulation’ del 2015, Matt Mitchell non ha avuto un attimo di tregua. Ha suonato sui dischi pubblicati recentemente da Dan Weiss (il deludente ‘Sixteen: Drummers Suite’ del 2016), Steve Coleman (l’intrigante ‘Morphogenesis’, uscito quest’anno) e Tim Berne (‘Incidentals’, edito a settembre per ECM), tra gli altri; e solo a marzo pubblicava ‘FØRAGE’, una sua personale – ma prescindibile – rilettura in solo piano di alcune composizioni proprio di Tim Berne, volta ad omaggiare uno dei più importanti ascendenti sulla sua crescita musicale.

A settembre Mitchell è tornato quindi con il suo terzo effettivo full-length da leader, come al solito edito dalla Pi, intitolato ‘A Pouting Grimace’. Distanziandosi dalle formazioni ridotte dei suoi lavori precedenti, Mitchell questa volta si circonda di alcuni dei più dotati musicisti della scena avant-jazz americana contemporanea – dai classici collaboratori Dan Weiss e Ches Smith a Sara Schoenbeck, Jon Irabagon e Anna Webber, scomodando anche Tyshawn Sorey (cui è affidato il prestigioso ruolo di direttore del complesso) –, organizzandoli in complessi dall’estensione variabile tra i cinque e i tredici elementi.

Nell’ensemble che suona su ‘A Pouting Grimace’ si affiancano così, ai classici strumenti del genere quali pianoforte, sassofono, contrabbasso, corno e vibrafono, altri decisamente meno comuni, se non in certi casi del tutto atipici, come flauti, oboi, clarinetti, fagotti, perfino tabla, tanbou, arpa e sintetizzatore Prophet 6 (suonato da Matt Mitchell stesso). Perdipiù, Mitchell si esibisce in diverse parentesi in solitaria dal minutaggio contenuto (esclusi i cinque minuti conclusivi di ‘Ooze Interim’), completamente basate su turbinii e sovrapposizioni caotiche di loop elettronici,che fungono da overture, interludio e conclusione del lavoro.

Con una selezione tanto ampia di timbri a disposizione, la scrittura di Mitchell si fa ancora più sofisticata e variegata rispetto al passato. Ogni composizione di ‘A Pouting Grimace’ prende piede da un nucleo primitivo (un concetto, un tema o un’idea per la performance) e si sviluppa, a partire da quello, in maniera più o meno deterministica – come ormai è prassi in casa Pi, il confine tra la composizione del leader e l’interpretazione degli esecutori è molto sfocato.La resa finale, pur conoscendo le premesse, suona comunque sempre molto esotica, anche per via dell’intricata rete di interazioni che si instaura tra i fiati (e in particolar modo i legni) con le diverse percussioni, provenienti da tradizioni indiane e latine oltre che da quella occidentale.

In‘Plate Shapes’, per esempio,il settetto viene limitato da una griglia prefissata di possibili manovre improvvisative, e così, mentre il sassofono e il pianoforte sono costretti a sfruttare la ripetizione dello stesso tema per prendere dimestichezza con la performance, il vibrafono, la marimba e il fagotto decorano il pezzo sviluppandone gli arrangiamenti; in ‘Mini Alternate’, invece,gli strumenti ricamano diverse frasi melodiche e assoli basandosi sempre sullo stesso schema di contrabbasso, ribadito per tutta la durata del brano, in tal modo celando uno sviluppo circolare con l’illusione di un’evoluzione lineare.
Anche quando si vuole dare semplicemente una personale interpretazione della ballata (‘Gluts’), il gruppo sceglie sempre la prospettiva meno banale:la prima metà è affidata al piano trio, guidato dalle serpentine scriabiniane di Mitchell; la seconda è invece dominata da una lirica conversazione a tre tra flauto, fagotto e arpa, e solo la conclusione vede entrambe le formazioni contemporaneamente.

Le due composizioni maggiori sono però quelle che vedono idodici musicisti al completo sotto la direzione di Sorey.‘Brim’, con la sua straripante improvvisazione centrale contesa tra poliritmi cervellotici, assordanti unisono dei fiati e misteriosi assoli di flauto, oboe, fagotto e arpa, rappresenta secondo le stesse parole di Matt Mitchell il fulcro musicale dell’album – ‘Mini Alternate’ si basa su un frammento di ‘Brim’, e anche l’interludio elettronico ‘Deal Sweeteners’ immediatamente successivo ne è di fatto un riepilogo elettroacustico –, mentre ‘Sick Fields’ è invece un brano più sparso, fatto di allucinazioni e di visioni scollegate, che sembra influenzato direttamente dalla musica più audace di Tyshawn Sorey.

Contando anche il fatto che ogni pezzo prevede una line-up differente dagli altri, ‘A Pouting Grimace’ risulta inevitabilmente un disco densissimo di invenzioni armoniche, melodiche e ritmiche in continua mutazione: paradossalmente, nonostante la varietà di sonorità incorporate da Mitchell in fase di scrittura e orchestrazione che lo rendono particolarmente accattivante e di impatto fin dai primi ascolti, ‘A Pouting Grimace’ sembra svelarsi lentamente, rivelando ogni volta un dettaglio inedito.
È evidente che nella musica di Mitchell convivano le più sofisticate teorie musicali dell’AACM e della musica da camera contemporanea, e il suo passato nei Thinking Plague emerge nitidamente negli elaborati arrangiamenti dei fiati (in particolare del fagotto e dell’oboe) che richiamano l’avant-prog e il Rock in Opposition; ma a uno sguardo più attento emergono numerose, per quanto più subliminali, suggestioni provenienti dalla musica orientale (non solo per via delle percussioni indiane utilizzate da Dan Weiss, ma anche per il largo uso dell’improvvisazione modale), latina e perfino metal (come dimostrano le cadenze dell’apocalittica‘Heft’), di cui Mitchell è un avido ascoltatore.

Eppure ‘A Pouting Grimace’, nonostante le numerose tendenze centrifughe, risulta sempre perfettamente coeso, senza che nullaappaia inserito forzatamente o suoni non amalgamato al resto. Matt Mitchell sembra ora aver compiuto il definitivo salto di qualità anche come compositore e arrangiatore, oltre che come esecutore: senza alcun dubbio, ‘A Pouting Grimace’ va considerato uno dei dischi più importanti dell’anno.
(Ema)

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