FREE FALL JAZZ

Coleman Hawkins's Articles

Un recente articolo su una nota rivista ha riproposto i ben noti luoghi comuni dello stupidario jazzistico, in salsa più che mai filosofico-intellettualizzante. Non poteva mancare lo sguardo paternalista al jazz pre-bebop, considerato musica importante dal punto di vista storico ma, come dire… sempliciotta, povera, robettina da negri, non certo musica d’arte. Pensavamo di esserci lasciati alle spalle certe stronzate, e invece trovano ancora spazio su riviste a tiratura nazionale. Bah. Risolleviamoci l’umore con questa bella esibizione francese di Coleman Hawkins, Roy Eldridge e Vic Dickerson con sezione ritmica, che è meglio!


Sappiamo come Bob Weinstock della Prestige favorisse il formato delle jam session, che tanti capolavori hanno dato alla storia del jazz. Si radunano i musicisti, si preparano arrangiamenti essenziali, e via, si registra, con la massima semplicità, confidando nell’intesa fra i protagonisti e nella bontà del materiale. Più o meno questi devono essere i presupposti di ‘Very Saxy’, album del 1959 che ci pone di fronte ad un problema di attribuzione: Eddie “Lockjaw” Davis e la sua band ospitano tre tenori, oppure un album dei quattro sassofonisti? Le note suggeriscono la prima ipotesi, ma alla fine poco ci importa, perché l’album è eccezionale. Oltre alla già citata formazione di Davis (quella degli storici Cookbook, ovvero Shirley Scott all’hammond, George Duvivier al basso e Arthur Edgehill alla batteria) abbiamo infatti tre ospiti incredibili: i texani Arnett Cobb e Buddy Tate e il venerato maestro Coleman Hawkins, all’epoca già cinquantacinquenne ma ancora in splendida forma. (Continua a leggere)

Un cast stellare con Clark Terry, James Moody, Zoot Sims, Dizzy Gillespie, Coleman Hawkins, Benny Carter, Teddy Wilson, Bob Cranshaw, Louie Bellson e T-bone Walker non avrà mica bisogno di un’introduzione, vero?


“Bags”, come sappiamo, è il nomignolo affibbiato a Jackson per via delle borse sotto gli occhi, una “bean bag” è una sacca riempita di fagioli secchi… chi sarà mai il “Bean” della situazione? Ma ovviamente Coleman Hawkins! Scemenze a parte, “Bean Bags” fa parte della lunga serie di album incisi da Milt Jackson su Atlantic. Accompagnati da una formazione deluxe (Tommy Flanagan al piano, Kenny Burrell alla chitarra, Eddie Jones al contrabbasso, Connie Kay alla batteria), Bean e Bags affrontano sei brani sovrapponendo due diverse generazioni di jazz. Hawkins e Jones infatti sono musicisti dell’era dello swing, mentre gli altri sono emersi negli anni del bebop: quello che ne esce fuori, se vogliamo, ricorda quel fertilissimo periodo di quindici anni prima in cui Coleman Hawkins stesso, alla guida di piccole formazioni composte da quei musicisti che di lì a poco avrebbero sconvolto le acque, innervava il classico di una tensione nuova. (Continua a leggere)

Ovvero, Coleman Hawkins, Roy Eldridge, Cozy Cole, Carol Stevens, Barry Galbraith e altri ancora in un’eccitante jam session – cosa altro aggiungere? Niente. E infatti…


Se esiste il jazz per orchestra lo dobbiamo innanzitutto a Fletcher Henderson, pianista e caporchestra che assemblò e diresse per primo una compagine jazzistica estesa – che è cosa ben diversa dalle dance band di musicisti come Paul Whiteman. Henderson poteva contare su strumentisti di grande valore, fra cui Don Redman, sassofonista, clarinettista e soprattutto arrangiatore di genio. Fu proprio Redman a dare una fisionomia definitiva all’orchestra jazz, con arrangiamenti scritti che lasciavano comunque spazio all’improvvisazione dei solisti, e ad elaborare un suono complessivo che usciva dalla combinazione di sezioni (trombe, tromboni, sassofoni, clarinetti), a volte amalgamate, a volte impegnate in botta e risposta, spesso alle prese con iridescenti tappeti sonori in funzione del solista di turno. (Continua a leggere)

Nel 1962 il mondo del jazz iniziava a chiedersi se fosse possibile uscire dalla forma chorus. Molti musicisti risposero affermativamente a questa domanda, dando così vita ad una serie di movimenti innovativi con vari gradi di prudenza e/o rischio. Tuttavia di questi movimenti non ci importa un bel niente, almeno ora. Vi proponiamo infatti una bellissima mezz’ora di sua maestà Coleman Hawkins, registrato a Bruxelles nel 1962. Hawk in quel periodo pubblicava una serie di album bellissimi e pure dal vivo, come dire… spaccava ancora il culo. Abbiamo le prove.



Se attaccassimo il pistolotto sui meriti (a volte persino snobbati) di Coleman Hawkins per la musica di cui parliamo su questi lidi non la finiremmo più. L’assist per parlarne ce lo offre la Mosaic Records, che ha appena annunciato un’operazione mastodontica: arriva infatti tra fine Maggio/inizio Giugno Classic Coleman Hawkins Sessions, un cofanetto di 8 CD (in tiratura limitata di 5000 copie) che raccoglie la bellezza di 190 brani (di cui 12 inediti), in pratica tutte le incisioni del sassofonista comprese tra il 1922 e il 1947. Un quarto di secolo che parte dalla preistoria in compagnia di Mamie Smith, cantante blues nel cui complesso di accompagnamento (i Jazz Hounds) si fece le ossa un giovanissimo Coleman, alle sessioni in odor di be bop con Max Roach, Fats Navarro e J.J. Johnson; nel mezzo, ovviamente, i lunghi anni di swing e ballads che lo hanno reso immortale. (Continua a leggere)