FREE FALL JAZZ

hard bop's Articles

Fra il 1958 e il 1963, Wes Montgomery incise una memorabile serie di album su Riverside (diciotto, da leader e non), per passare poi alla Verve. ‘So Much Guitar!’, del 1961, è solo uno dei capitoli di questo fortunato e prolifico periodo della carriera del chitarrista, all’epoca il più influente e innovativo. L’idea di Orrin Keepnews, produttore delle sessioni, era semplice: mandare in studio Wes con grandi sezioni ritmiche e una scelta di materiale in grado di mettere in risalto tutte le sue doti. In ‘So Much Guitar!’ troviamo il piano, più bluesy e percussivo del solito, del grande Hank Jones, un giovanissimo Ron Carter e la batteria di Lex Humphries, quasi tutta sui piatti; le percussioni di Ray Barretto aggiungono un taglio latino quasi subliminale. (Continua a leggere)

Non c’è mai stata troppa fortuna per nessuno di questi due grandi tenoristi. Per Von Freeman, una carriera da leader iniziata solo nel 1972, possiamo parlare di una vita dedicata principalmente all’insegnamento; per Clifford Jordan, una vita da girovago all’insegna della versatilità (Eric Dolphy, Charles Mingus, Horace Silver, JJ Johnson, Andrew Hill, Max Roach fra i tanti). Proprio per questo li ricordiamo con questo bell’estratto da un concerto del 1988.


Queste incisioni rappresentano l’inizio della carriera da leader di Art Farmer, che fino a quel momento aveva suonato presso vari altri musicisti, non ultimo Lionel Hampton, che lo schierava nella sezione delle trombe assieme a Clifford Brown e Quincy Jones. Proprio quest’ultimo sarà il braccio destro del buon Art nella prima incisione a suo nome, per la Prestige nel 1953. Si tratta di quattro brani in settetto dove Jones siede al pianoforte e si occupa degli arrangiamenti, mentre l’anno successivo un altro settetto, forte della penna di Gigi Gryce, ne inciderà altri quattro. In entrambe le sessioni si avverte l’influenza del ‘Birth Of The Cool’ di Miles Davis: registri alti (tromba, tenore) e gravi (sax baritono, trombone) in combinazioni dal suono leggero e arioso, con in più un colore complessivo scuro che fa risaltare la tromba sobria ed elegantissima di Art Farmer. (Continua a leggere)

Il chitarrista Nicola Mingo, dopo vent’anni di carriera e sette album, non dovrebbe ormai avere più bisogno di presentazioni. Il suo credo nel linguaggio hard bop è ferreo, così come la padronanza e la maturità ormai acquisite. Dopo l’omaggio a Clifford Brown in occasione del precedente ‘I Remember Clifford’, Mingo torna oggi con un cd fatto interamente di composizioni originali mettendosi alla guida di un quartetto affiatato e swingante. Già, l’aggettivo non è buttato lì a caso, nè il disco si chiama ‘Swinging’ senza ragione, visto che la vigorosa sezione ritmica (Antonello Vannucchi al piano, Giorgio Rosciglione al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria) è un propellente naturale per il fraseggio rapido e incisivo, ricco di note staccate, del leader. (Continua a leggere)

Che firmare autografi non fosse l’attività preferita di Miles Davis è risaputo, infatti i pochi riusciti nell’impresa di strappargli una firma la conservano come una preziosa reliquia. Quanto preziosa lo scopriamo oggi su Ebay. Sul noto sito di  aste online è infatti apparso un vinile di ‘Kind Of Blue’ il cui retrocopertina presenta dediche non solo di Miles ma anche del batterista Jimmie Cobb.

“To Leo, Miles Davis, thank you” e “Best wishes, Jimmie Cobb, July 3rd 1960”: il venditore spiega che gli autografi sono stati ottenuti al Blackhawk jazz club di San Francisco dal padre del possessore del disco, che avrebbe approcciato i musicisti al bar prima dell’inizio del loro secondo set. Soprattutto, il disco viene presentato come l’unica copia autografata di ‘Kind Of Blue’ mai ufficialmente rintracciata. Il tutto proposto alla modica cifra di 35.000 dollari; circa 26.204,47, spiega Ebay, aggiungendo che 41 utenti stanno osservando questo oggetto.

Stiamo seriamente pensando di mettere in vendita una copia autografata del disco di Erminio Furlo.

Era un po’ che non pubblicavamo niente di Art Blakey e dei sempre straordinari Jazz Messengers, quindi risolviamo la giornata con questa torrenziale versione di ‘Moanin”, registrata non si sa dove, ma si suppone intorno al 1958: il disco omonimo era uscito l’anno prima e sul palco vediamo appunto Lee Morgan, Benny Golson, Bobby Timmons e Jymie Merrit.


Di Jack McDuff è facilissimo ricordare la selva di classici sfornati su Prestige nei primi anni ’60 (ottimo ‘Brother Jack Meets The Boss’, in compagnia del grande Gene Ammons), che lo hanno consacrato come uno dei più importanti organisti soul jazz, dallo stile quadrato e innervato di blues. Il ripescaggio che andiamo a proporvi è decisamente meno noto e richiede un balzo in avanti di almeno 25 anni: è infatti il 1988 quando, dopo un periodo di assenza piuttosto prolungato (sorte in quel periodo comune a quasi tutti i campioni degli anni ’50 e ’60), “Brother” Jack decide di ribattezzarsi “Captain” e tornare sulle scene con un nuovo disco. La buona notizia è che ‘The Reentry’, programmaticamente intitolato, del periodo in cui esce non ha nulla, se non la produzione piuttosto cristallina (caratteristica peraltro comune a quasi tutte le produzioni della Muse, etichetta che patrocina questo nuovo capitolo): niente riferimenti fusion (genere a cui negli anni ’70 l’organista aveva strizzato l’occhio con risultati da dimenticare), niente tastiere plasticose, niente sassofoni smooth. (Continua a leggere)

La figura di Duke Pearson è un’altra di quelle che ancora attendono la giusta rivalutazione critica. Pianista hard bop ineccepibile, dallo stile elegante ed essenziale figlio di Hank Jones e Teddy Wilson, ebbe anche un ruolo di eminenza grigia dietro a tanto jazz degli anni ’60, visto il suo incarico di a&r, produttore e orchestratore presso la Blue Note. Queste grandi qualità naturalmente si facevano sentire pure nei suoi dischi, in particolare quelli con formazioni allargate che gli permettevano di mettere in mostra il suo talento per la composizione e l’arrangiamento. ‘The Prairie Dog’ uscì su Atlantic, graziato da una magnifica copertina western che in realtà non si riflette granché nell’album, a parte il brano omonimo: se i “prairie dog” sono roditori simili a marmotte che abitano le praterie del nordamerdica, la title track è una fanfara blues indolente cui gli strumenti (contralto, tenore, chitarra) danno un appropriato colore country. (Continua a leggere)

Eddie “Lockjaw” Davis e Johnny Griffin furono, oltre che grandi musicisti, pure grandi amici e nel biennio 1960-1961 ne diedero prova  incidendo una serie di album per la Prestige. La “tenor battle” era stata resa celebre all’epoca del be-bop grazie alla famosa “chase” fra Dexter Gordon e Wardell Gray, ma confronti e cutting contest erano all’ordine del giorno, soprattutto dal vivo. Johnny e Lock, nel loro quintetto, non puntarono mai sul senso di sfida, piuttosto sulla conversazione che mettesse in risalto le differenze stilistiche dei due: Lockjaw era di quei tenoristi “di mezzo” (come Don Byas e Lucky Thompson) che trasportavano il suono imponente di Ben Webster e Coleman Hawkins nel be-bop, Griffin un virtuoso che controllava ogni minimo aspetto del suo strumento alla perfezione. (Continua a leggere)

Lo scorso anno siamo stati dei gran boccaloni, quest’anno purtroppo è vero – Horace Silver è morto lo scorso mercoledì, come annunciato dal figlio Gregory (NPR). (Continua a leggere)