FREE FALL JAZZ

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Davvero insolito questo ottetto, capeggiato dalla brava Kris Davis al piano e autrice dei brani del CD. Oltre la stessa Davis ci sono Gary Versace all’organo, Nate Radley alla chitarra, Jim Black alla batteria e ben quattro dei più famosi e bravi clarinettisti: Ben Goldberg, Oscar Noriega, Joachim Badenhorst e Andrew Bishop. La musica che si ascolta nel cd, è di grande complessità strutturale, merito della scrittura della Davis, che muove con facilità e incastra alla perfezione le diverse anime del gruppo. La batteria di Black inserisce un’energia di matrice rock dura, cosa tra l’altro già confermata nel proprio gruppo Actuality, l’organo aggiunge colore alle atmosfere dark che i clarinetti realizzano (quando tutti sono al clarino basso), la chitarra sembra distaccarsi dal resto (forse unico neo), e il piano della Davis puntualizza, lasciando agli altri molto spazio. (Continua a leggere)

L’ottetto di David Murray è una delle espressioni più felici del jazz degli anni ’80. Superficialmente, persino una stranezza: Murray si era distinto per la sua militanza nel World Saxophone Quartet ed uno stile, almeno inizialmente, in linea con Archie Sheep e Albert Ayler. Il suo ottetto, forte di innovativi musicisti come George Lewis (trombone), Henry Threadgill (sax, flauto) e Butch Morris (cornetta) sembrava invece molto più “normale”. In realtà con questa formazione Murray ha potuto mettere in mostra tutto il suo talento di leader, compositore, arrangiatore… e storico. Se già in passato il sax di Murray era avanti guardando indietro (gli echi di Ben Webster e Paul Gonsalves sono sempre stati ben presenti nel suo modo di suonare), la cosa si fa ora più profonda e trasversale. (Continua a leggere)

La figura di Duke Pearson è un’altra di quelle che ancora attendono la giusta rivalutazione critica. Pianista hard bop ineccepibile, dallo stile elegante ed essenziale figlio di Hank Jones e Teddy Wilson, ebbe anche un ruolo di eminenza grigia dietro a tanto jazz degli anni ’60, visto il suo incarico di a&r, produttore e orchestratore presso la Blue Note. Queste grandi qualità naturalmente si facevano sentire pure nei suoi dischi, in particolare quelli con formazioni allargate che gli permettevano di mettere in mostra il suo talento per la composizione e l’arrangiamento. ‘The Prairie Dog’ uscì su Atlantic, graziato da una magnifica copertina western che in realtà non si riflette granché nell’album, a parte il brano omonimo: se i “prairie dog” sono roditori simili a marmotte che abitano le praterie del nordamerdica, la title track è una fanfara blues indolente cui gli strumenti (contralto, tenore, chitarra) danno un appropriato colore country. (Continua a leggere)

Nella seconda metà degli anni ’50 le orchestre jazz sono una specie in via di estinzione, a causa degli alti cosi di mantenimento. Duke Ellington, forse l’unico, riesce a superare la crisi senza dover mai sciogliere la sua big band, mentre gli altri non furono così fortunati. Nemmeno Dizzy Gillespie, uno dei volti più noti e amati del jazz, innovatore tanto del linguaggio trombettistico come di quello orchestrale, e grande comunicatore. In attesa di momenti più propizi, Dizzy pensa ad una formazione estesa e chiama due dei più talentuosi compositori e arrangiatori per piccoli ensemble: Benny Golson e Gigi Gryce. Con altri due fiati (il baritono di Pee Wee Moore e il trombone di Henry Coker), una sezione ritmica swingante e compatta (Ray Bryant al piano, Tommy Bryant al basso e Charlie Persip alla batteria) e un repertorio di brani originali scritti dai due sassofonisti, l’ottetto dà vita ad una nuvola di suono vellutato, non dissimile dai coevi esperimenti di Gryce con Art Farmer e Donald Byrd.  (Continua a leggere)