L’annuncio lo ha dato Lehman stesso dalla sua pagina Facebook: Selebeyon è il nome del suo nuovo progetto collaborativo, descritto dal sassofonista americano come musica “profondamente intrisa di rap senegalese, armonia spettrale, jazz contemporaneo hip-hop indipendente e altro ancora”, con l’obiettivo di creare “qualcosa di diverso da tutto il resto e con la potenzialità di avere una grande profondità emotiva”. (Continua a leggere)
Davvero insolito questo ottetto, capeggiato dalla brava Kris Davis al piano e autrice dei brani del CD. Oltre la stessa Davis ci sono Gary Versace all’organo, Nate Radley alla chitarra, Jim Black alla batteria e ben quattro dei più famosi e bravi clarinettisti: Ben Goldberg, Oscar Noriega, Joachim Badenhorst e Andrew Bishop. La musica che si ascolta nel cd, è di grande complessità strutturale, merito della scrittura della Davis, che muove con facilità e incastra alla perfezione le diverse anime del gruppo. La batteria di Black inserisce un’energia di matrice rock dura, cosa tra l’altro già confermata nel proprio gruppo Actuality, l’organo aggiunge colore alle atmosfere dark che i clarinetti realizzano (quando tutti sono al clarino basso), la chitarra sembra distaccarsi dal resto (forse unico neo), e il piano della Davis puntualizza, lasciando agli altri molto spazio. (Continua a leggere)
Gli JÃœ sono un power trio chitarra, basso e batteria con un piede nel rock duro e l’altro nel jazz rock di certi John Scofield e Bill Frisell. Kjetil Møster è un giovane sassofonista scandinavo, un apprezzabile “digest”di John Coltrane, Albert Ayler e Archie Shepp, con alle spalle esperienze assieme a Datarock, Röyksopp, The Core e persino Chick Corea. La collaborazione fra JÃœ e Møster, fortemente voluta dalla RareNoiseRecords, suona quasi come una somma algebrica fra le componenti. Potremmo tranquillamente parlare di un disco che rilegge un certo tipo di rock secondo una prospettiva jazz, ma è vero pure il contrario: a volta il sax suona proprio come un indemoniato cantante di un quartetto hard/prog anni ’70, un punto di riferimento per seguire le trame sonore rumorose e intricate di una formazione aggressiva e potente. (Continua a leggere)
Era un po’ che non pubblicavamo niente di Art Blakey e dei sempre straordinari Jazz Messengers, quindi risolviamo la giornata con questa torrenziale versione di ‘Moanin”, registrata non si sa dove, ma si suppone intorno al 1958: il disco omonimo era uscito l’anno prima e sul palco vediamo appunto Lee Morgan, Benny Golson, Bobby Timmons e Jymie Merrit.
«Horace Silver è quel genere di artigiano (craftsman) di cui il jazz, come ogni forma d’arte, ha necessità per sostenersi. Questi artigiani, si parli di Don Redman, di Fletcher Henderson, di Count Basie, di Roy Eldridge o di Horace Silver, sono comparsi al momento giusto per interpretare il loro ruolo cruciale nello sviluppo della musica. Certo, senza gli Armstrong e i Parker a rinnovare il linguaggio, e senza i Morton, gli Ellington e i Monk e conferirgli una sintesi con la loro attività di compositori, il jazz languirebbe. Ma senza artigiani di forte personalità e creativi come Horace Silver fra i suoi solisti e i suoi compositori, non esisterebbe un linguaggio comune da rinnovare e nessuna affermazione di materiali che possano essere oggetto di sintesi».(1) (Continua a leggere)