Se c’è un aspetto fondamentale del jazz è quello di cultura orale, di continuum da estendere, tramandare e rimembrare in un eterno processo di dialogo fra presente e passato per disegnare il futuro. In quest’ottica, il titolo del nuovo disco di Aaron Diehl, ‘Space Time Continuum’ appare come una dichiarazione d’intenti, giusto in caso qualcuno nutrisse dei dubbi. Diehl organizza infatti un programma estremamente vario, sia dal punto di vista stilistico che di organico, con lo scopo di unificare tanto le generazioni quanto gli orizzonti stilistici, dimostrandone l’intrinseca attualità. Il trio base, completato dal basso di David Wong e dalla batteria di Quincy Davis, può essere ascoltato su tre brani: un’incisiva, dinamica versione di ‘Uranus’, l’aggraziata ‘Santa Maria’ dai colori e ritmi latini e l’ipercinetica ‘Broadway Boogie Woogie’, un boogie ricco di ostacoli ritmici superati in scioltezza. (Continua a leggere)
Era un po’ che non pubblicavamo niente di Art Blakey e dei sempre straordinari Jazz Messengers, quindi risolviamo la giornata con questa torrenziale versione di ‘Moanin”, registrata non si sa dove, ma si suppone intorno al 1958: il disco omonimo era uscito l’anno prima e sul palco vediamo appunto Lee Morgan, Benny Golson, Bobby Timmons e Jymie Merrit.
Nella seconda metà degli anni ’50 le orchestre jazz sono una specie in via di estinzione, a causa degli alti cosi di mantenimento. Duke Ellington, forse l’unico, riesce a superare la crisi senza dover mai sciogliere la sua big band, mentre gli altri non furono così fortunati. Nemmeno Dizzy Gillespie, uno dei volti più noti e amati del jazz, innovatore tanto del linguaggio trombettistico come di quello orchestrale, e grande comunicatore. In attesa di momenti più propizi, Dizzy pensa ad una formazione estesa e chiama due dei più talentuosi compositori e arrangiatori per piccoli ensemble: Benny Golson e Gigi Gryce. Con altri due fiati (il baritono di Pee Wee Moore e il trombone di Henry Coker), una sezione ritmica swingante e compatta (Ray Bryant al piano, Tommy Bryant al basso e Charlie Persip alla batteria) e un repertorio di brani originali scritti dai due sassofonisti, l’ottetto dà vita ad una nuvola di suono vellutato, non dissimile dai coevi esperimenti di Gryce con Art Farmer e Donald Byrd. (Continua a leggere)
Avevo pensato di aprire queste righe con un’introduzione tipo “Sabato sera ho visto il jazz. Il suo nome è Benny Golson”: pomposa quanto volete, ma, vi giuro, neanche troppo lontana dalla realtà. Di concerti (non solo jazz) ne ho visti tanti, ma davvero pochi sono quelli in cui lo spettacolo sul palco è capace di coinvolgere per tutto il tempo senza punti morti e, soprattutto, di lasciarti sulle labbra un sorriso a 32 denti, misto di divertimento e soddisfazione. Benny Golson ci è riuscito. E ci è riuscito perché sul palco il primo a divertirsi, forse anche più di noi, è lui stesso. Quelle assi le calca con l’entusiasmo del primo giorno: lo scruti un paio di minuti ed è chiarissimo che a lui piace stare lì e non desidera altro. (Continua a leggere)
Appuntamento ormai storico, il festival Pomigliano Jazz in quasi 20 anni di vita ha portato in provincia di Napoli (gratis, per giunta) alcuni dei più grandi interpreti della nostra musica.
Qualche giorno fa, all’annuncio della prima parte del programma di quest’anno (quella delle serate a pagamento), più di qualcuno ha storto il naso: “soliti” nomi di casa nostra (Rava e il duo Petrella/Guidi) e nomi che col jazz c’entrano ben poco (Ludovico Einaudi).
La realtà però è che anche questo tipo di varietà permette di mantenere in vita un festival che va incontro a tutte le inevitabili difficoltà che possono intaccare una manifestazione musicale nel 2013, e dunque ben vengano gli Einaudi di turno se rappresentano il prezzo da pagare per accontentare anche il pubblico più “intransigente”.
Sì, perchè le due serate ad ingresso gratuito, venerdì 20 e sabato 21 Settembre, nella nuova location del Parco Delle Acque di Pomigliano D’Arco, porteranno sul palco due monumenti davanti ai quali togliersi il cappello: Archie Shepp e Benny Golson.
Il quartetto del primo sarà accompagnato per l’occasione dall’Orchestra Napoletana di Jazz di Mario Raja, esibendosi in classici del repertorio di Shepp, ma anche in standard e in rivisitazioni di brani classici della tradizione partenopea. Un abbinamento inaspettato e sulla carta improbabile, ma che di sicuro suscita interesse e curiosità.
Golson invece snocciolerà il suo repertorio accompagnato da un inedito terzetto di musicisti nostrani: Antonio Faraò al pianoforte, Aldo Vigorito al contrabbasso e Claudio Romano alla batteria.
Noi, come sempre, ci saremo. Per il programma completo vi invitiamo a visitare il sito ufficiale e la pagina Facebook.
Il bellissimo filmato che vi accingete a visionare viene dagli archivi di una tv tedesca. Fu girato in occasione del settantesimo compleanno di Art Blakey al festival di Leverkusen, ed è una vera goduria per una serie di motivi. Il primo, banalmente, è che si tratta di Art Blakey e dei Jazz Messengers, all’epoca composti da Brian Lynch (tromba), Javon Jackson (tenore), Donald Harrison (contralto), Frank Lacy (trombone), Essiet Okon Essiet (contrabbasso) e Geoff Keezer (piano); il secondo la parata di ospiti speciali, gente lanciata proprio da Blakey verso l’empireo che torna a festeggiare il maestro, e si parla di Freddie Hubbard, Wayne Shorter, Benny Golson, Walter Davis jr, Jackie McLean e Terence Blanchard; ‘Mr Blakey’, un divertente brano scritto appositamente da Horace Silver (che non aveva potuto partecipare) e cantato da Michelle Hendricks; infine, Roy Haynes dietro la batteria e Art al pianoforte per una bella versione del classico di Monk ‘In Walked Bud’. E poi, la musica dei Messengers… ma quella non si discute, giusto?
Questa settimana abbiamo scelto per voi uno standard in una versione proposta proprio dal suo autore: ‘Stablemates’, dall’esibizione al Jazzfestival di Berna (27 aprile 1989) del Benny Golson Quintet. Formazione d’eccezione: a fare compagnia al sax tenore di Golson troviamo Freddie Hubbard (tromba e flicorno), James Williams (piano), Peter Washington (basso) e Tony Reedus (batteria). Enjoy.
Il nome di Benny Golson viene spesso, e giustamente, associato a determinati sodalizi (con Art Blakey nel memorabile ‘Moanin”, con Art Farmer nel Jazztet) e alla sua originalità di compositore/arrangiatore per piccoli e medi organici (lavoro svolto per Dizzy Gillespie e per vari classici album di casa Blue Note). Se ne parla molto meno quando l’argomento sono grandi sassofonisti e grandi album. Ed è un vero peccato perché Golson, a proprio nome, può vantare una discografia ricchissima e con un rapporto qualità/quantità davvero positivo.
‘Groovin’ With Golson’ è uno dei molti dischi incisi da Benny a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Come i coevi ‘Gettin’ With It’ e ‘Gone With Golson’, schiera una frontline piuttosto inusuale fatta di tenore e trombone, affidato alle esperte mani del fido Curtis Fuller. Sonorità calde e incentrate toni sui medi, arrangiamenti dall’intrigante effetto orchestrale, e ampi spazi per i solisti sono il punto di partenza per una magnifica sessione hard bop a tutto blues – ovvero una delle due o tre cose migliori del mondo. (Continua a leggere)