FREE FALL JAZZ

gerundi senza la “g” come se piovesse's Articles

La rinata Okeh mette le mani pure su Craig Handy, sassofonista mainstream di grande valore, e sul suo nuovissimo progetto 2nd Line Smith. Un nome piuttosto stravagante, che in realtà descrive più che bene le intenzioni del leader: la fusione della second line di New Orleans e dell’organ combo à la Jimmy Smith, esaltando le componenti ritmiche, funky e fisiche della musica. La componente neworleansiana arriva grazie ad una serie di batteristi espertissimi di questo tipo di groove, come Jason Marsalis, Ali Jackson e il portentoso Herlin Riley, cui si sovrappone il sousafono di Clark Gayton per completare il feeling da marching band, mentre l’hammond viene affidato alle capaci mani di Kyle Kohler. (Continua a leggere)

Era un po’ che non pubblicavamo niente di Art Blakey e dei sempre straordinari Jazz Messengers, quindi risolviamo la giornata con questa torrenziale versione di ‘Moanin”, registrata non si sa dove, ma si suppone intorno al 1958: il disco omonimo era uscito l’anno prima e sul palco vediamo appunto Lee Morgan, Benny Golson, Bobby Timmons e Jymie Merrit.


Quando il 33 giri fece finalmente la sua comparsa, si aprì un mondo di possibilità per musicisti e discografici. Una su tutte, quella di poter incidere opere di lunga durata, e quindi di poter riportare su disco ciò che si poteva sentire, in precedenza, solo dal vivo. Per Bob Weinstock, capo della Prestige, fu una vera manna dal cielo: finalmente i jazzisti potevano esprimersi in studio come dal vivo – questo lo portò a incidere e pubblicare un enorme numero di lavori, spesso in forma di lunghe jam session. Un formato caduto poi in disuso, che oggi ad alcuni piace denigrare, ma che non di rado dava vita a sessioni entusiasmanti, soprattutto con un po’ di lavoro preparatorio a monte. Gene Ammons, uno dei più riconoscibili e sottovalutati tenoristi, registrò sette album in un paio d’anni per Weinstock: tutti quanti fatti di jam session con brani molto lunghi (a volte vicini ai quindici minuti, originali alternati a qualche standard) e Mal Waldron in veste di accompagnatore e arrangiatore. ‘Groove Blues’ è uno dei migliori della serie e vedere schierata una formazione imponente, tant’è che nei primi due lunghi, fantastici blues a tempo medio troviamo ben cinque fiati: oltre al leader ecco l’altro tenore di Paul Quinichette, il baritono di Pepper Adams, il contralto di… John Coltrane (riconoscibilissimo, in pieno stile sheets of sound) e il flauto di Jerome Richardson, che conferisce un particolare colore quasi esotico al blues. (Continua a leggere)

Il bellissimo filmato che vi accingete a visionare viene dagli archivi di una tv tedesca. Fu girato in occasione del settantesimo compleanno di Art Blakey al festival di Leverkusen, ed è una vera goduria per una serie di motivi. Il primo, banalmente, è che si tratta di Art Blakey e dei Jazz Messengers, all’epoca composti da Brian Lynch (tromba), Javon Jackson (tenore), Donald Harrison (contralto), Frank Lacy (trombone), Essiet Okon Essiet (contrabbasso) e Geoff Keezer (piano); il secondo la parata di ospiti speciali, gente lanciata proprio da Blakey verso l’empireo che torna a festeggiare il maestro, e si parla di Freddie Hubbard, Wayne Shorter, Benny Golson, Walter Davis jr, Jackie McLean e Terence Blanchard; ‘Mr Blakey’, un divertente brano scritto appositamente da Horace Silver (che non aveva potuto partecipare) e cantato da Michelle Hendricks; infine, Roy Haynes dietro la batteria e Art al pianoforte per una bella versione del classico di Monk ‘In Walked Bud’. E poi, la musica dei Messengers… ma quella non si discute, giusto?


Lucques (basso) e Zaccai (piano) Curtis, negli ultimi anni, si sono fatti strada partecipando a dischi e tour di Orrin Evans, Brian Hogans, Sean Jones, Christian Scott, Donald Harrison, Etienne Charles e altri ancora. Tutti nomi, giovani e meno, del mainstream contemporaneo, e quindi è facile aspettarsi qualcosa in linea dal terzo album a loro nome. E infatti…

Per ‘Completion Of Proof’ i Curtis chiamano a corte i loro ex mentori, come il succitato Donald Harrison al contralto, il batterista Ralph Peterson (designato da Art Blakey in persona come batterista della Jazz Messengers Big Band), il trombettista Brian Lynch, il tenorista Jimmy Greene e ci aggiungono un paio di percussionisti. Da un simile dispiegamento di forze esce un lp polemico, sia nei confronti di quel jazz contemporaneo senza swing né forza comunicativa, sia in quelli di una società sempre più iniqua. Ma polemiche e discorsi stanno a zero, se la musica fa schifo, contrariamente a quel che pensa la critica più ideologizzata. Con l’ultima premessa ci si aspetterebbe ora una bella stroncatura sanguinolenta, vero? Invece da qui esce un suono imponente, quasi regale, un’emanazione diretta della musica di Art Blakey e del primo Marsalis, ben caratterizzato da una inarrestabile groove latino e dalla florida scrittura di Zaccai Curtis.

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- “Eh, guarda, ho scoperto un trombettista, Melvin Jones, che…”
- “Oh nini, arìvi èsimo! Elvin Jones, tanto per iniziare suonava la batteria, e poi…”
- “E poi un cavolo! Melvin, MELVIN il trombettista al debutto, non Elvin lo storico batterista!”

Dialogo non vero, ma verosimile: del resto, fra “Melvin” ed “Elvin” cambia solo l’iniziale. Melvin Jones, classe 1979, è un trombettista di Atlanta che ha svolto una consistente carriera di sideman (nei contesti più disparati: da Illinois Jacquet alle Pussycat Dolls e oltre) e di professore di musica al Morehouse College prima di debuttare a proprio nome. Al classicissimo quintetto di base, in cui spicca il tenore robusto e voluminoso di Mace Hibbard, si affiancano di brano in brano cinque diversi ospiti, tutti concittadini e amici del leader. E senza troppi giri di parole, ‘Pivot’ è il tipico disco che spakkkka. (Continua a leggere)