FREE FALL JAZZ

swinging's Articles

149746362259417b46e3444Ormai prossimo ai quarant’anni, e perciò sulla soglia della maturità umana e artistica, il trombettista Sean Jones rappresenta il classico esempio (ma sono moltissimi i casi citabili) di un jazzista americano di prim’ordine che in Italia non riesce a trovare adeguato spazio concertistico a causa della ben nota programmazione ottusa e miope delle nostre direzioni artistiche che, in un diabolico mix tra artificiose pretese “cultural-progressiste” e ristrettissime conoscenze in materia, tendono ad appoggiarsi ad un circolo chiuso di agenzie proponenti sempre gli stessi nomi, sin quasi allo sfinimento, disegnando al pubblico un quadro delle proposte presenti sulla scena contemporanea del jazz a dir poco settario e pesantemente limitato. (Continua a leggere)

Organista 75enne newyorchese, Lonnie Smith (autodeclamatosi “doctor” agli albori del nuovo millennio) regna da oltre mezzo secolo come un maestro di innovazione e sperimentazione. Poco importa se è stato lontano dalla fida Blue Note Records per quarantasei anni. Quando vi è tornato per incidere Evolution, a fine 2015, ha subito abbracciato la causa dell’attuale presidente dell’etichetta, Don Was: presentare i futuri movimenti del jazz e allo stesso tempo onorare coloro che ne hanno forgiato la tradizione. Mastro creatore di groove e consumato showman, Smith ha pensato bene di registrare All in My Mind in una dimensione live perché, come afferma lui stesso, “è difficile catturare ciò che sento in questo momento in studio”. (Continua a leggere)

stanley-turrentineQuesto scritto è la bozza originale di un lungo articolo pubblicato su Musica Jazz di aprile dello scorso anno. Come negli altri casi di miei pezzi pubblicati sulla rivista, lo ripubblico su questo blog (in conformità agli accordi informali presi a suo tempo con la direzione della rivista), completato da  link discografici e musicali ove è stato possibile rintracciare tali informazioni in rete, permettendo perciò di ascoltare mentre si legge. Buona lettura

Riccardo Facchi

Per quanto work song, blues, negro-spiritual, gospel e quant’altro in ambito afro-americano siano stati storicamente riconosciuti come radici fondanti del jazz, l’utilizzo di successive fonti popolari da essi derivate e presenti in parallelo sin dal dopoguerra alla formazione di un moderno linguaggio jazzistico è spesso stato visto con sospetto e spiccato atteggiamento critico, per lo più dal cultore europeo del jazz. (Continua a leggere)

Un recente articolo su una nota rivista ha riproposto i ben noti luoghi comuni dello stupidario jazzistico, in salsa più che mai filosofico-intellettualizzante. Non poteva mancare lo sguardo paternalista al jazz pre-bebop, considerato musica importante dal punto di vista storico ma, come dire… sempliciotta, povera, robettina da negri, non certo musica d’arte. Pensavamo di esserci lasciati alle spalle certe stronzate, e invece trovano ancora spazio su riviste a tiratura nazionale. Bah. Risolleviamoci l’umore con questa bella esibizione francese di Coleman Hawkins, Roy Eldridge e Vic Dickerson con sezione ritmica, che è meglio!


downloadMentre siamo impegnati a proporre l’ennesimo fiacco e ripetitivo cartellone festivaliero fatto con i soliti nomi, per lo più imposti dalle agenzie, e a sorbirci inflazionati concerti di qualche strombazzata “starletta” nazionale fatta passare per grande del jazz, la misura di quanto questo paese sia fermo e miope in ambito di musiche improvvisate si percepisce da come riesce ancora a incensare dischi di invecchiate ed esauste figure dell’avanguardia storica, permettendosi nel contempo di trascurare il lavoro più che eccellente di compositori e pianisti di comprovate capacità, assai stimati nell’ambiente musicale, come Arturo O’Farrill, da anni uno dei jazzisti più importanti e riconosciuti a livello internazionale, mentre da noi è pressoché sconosciuto ai più. (Continua a leggere)

Chi ama il jazz non può non apprezzare questo secondo volume dedicato allo stile tradizionale.
Lo stride piano è la matrice dell’opera e delinea atmosfere, colori ed emozioni.
Claudio Cojaniz ci trasporta alle origini del jazz, quando si mescolavano e contaminavano ragtime, blues, boogie, Africa, Europa, Sud America…
Il fraseggio è tipico, richiama naturalmente Scott Joplin, ma anche Pete Johnson, Albert Ammons e il grande Meade Lux.
La componente blues é nitida e subito percepibile, non solo nella pronuncia, ma anche nel metro delle tracce dal tempo più lento.
Nei passaggi più “tribali”, “orgiastici”, i fiumi di note caricano di energia il pianismo del musicista di Palmanova, tanto da evocare Art Tatum e Fats Waller. (Continua a leggere)

52246833Con questo Tipico, già decimo album da leader, il sassofonista Miguel Zenón si conferma uno dei musicisti e compositori più interessanti sulla scena contemporanea del jazz. Una scena che presenta ormai commistioni linguistiche talmente varie e vaste da doverle considerare prassi in un processo ormai inarrestabile in ambito di musiche improvvisate, jazz compreso. Eppure, è curioso dover constatare come una delle “contaminazioni” più longeve e diffuse nel jazz, quella con le musiche latine e caraibiche, sia da noi per lo più trascurata. E’ pur vero che in questo specifico caso Zenón ha prodotto un disco molto meno incentrato su questo aspetto rispetto a lavori precedenti, ma nella musica emerge comunque un modo di procedere ormai ben consolidato dall’altosassofonista in anni di sperimentazioni personali e di affiatata condivisione con gli altri membri di una formazione che è attiva da circa quindici anni su quel genere di progetti. (Continua a leggere)

R-5293534-1399546073-5002.jpegTreasure Island, del febbraio del 1974, è stato il secondo album registrato per la Impulse! dal cosiddetto “Quartetto Americano” di Keith Jarrett, che è stata una delle formazioni chiave per comprendere certi processi di fusione linguistica tra diversi generi (oggi si direbbe con termine persino abusato “contaminativi”) emersi in quei variegati e altamente creativi anni ’70. La band composta da Jarrett al pianoforte e sax soprano, Dewey Redman al sax tenore, e i fidi Charlie Haden al basso e Paul Motian alla batteria, è stata forse la migliore che Jarrett abbia mai guidato in carriera. Oltre al quartetto, l’allora promettente chitarrista Sam Brown qui contribuisce significativamente in un paio di brani, così come Guilherme Franco e Danny Johnson si aggiungono alle percussioni. È un disco che all’epoca fu considerato dalla nostra critica, nella migliore delle ipotesi, “gradevole”, nella peggiore, liquidato come “commerciale” (tanto per cambiare e visto il buon successo discografico che riscosse), termine con il quale si derubricava qualsiasi cosa interagisse con musiche di stampo popolare e non potesse essere classificata nei dintorni di un cosiddetto “jazz d’avanguardia” e conseguentemente “creativo”. (Continua a leggere)

Dispiace dover ripetere sempre le stesse cose, ma dispiace ancora di più notare come dagli Stati Uniti continuino ad uscire fior di giovani musicisti di talento, pressoché ignorati da una critica più propensa a celebrare il passato o in spasmodica attesa di un messia, possibilmente d’inaudita avanguardia. Chi ha pazienza e voglia di cercare, seguendo i musicisti stessi sui social network, non mancherà di imbattersi in sorprese gradite. Fra queste, come avrete già inteso, figura pure il trentenne George Burton, pianista newyorkese che debutta sulla Inner Circle Music di Greg Osby dopo una lunga gavetta e una serie articolata di esperienze, jazz e non solo. Come tanti suoi coetanei, Burton mette a frutto tutte le proprie esperienze in un affresco completo ed estremamente maturo, costruito attorno alla duttile sezione ritmica (completata dal bassista Noah Jackson e dal batterista Wayne Smith), una dozzina di grandi composizioni e una cast nutrito di ospiti. (Continua a leggere)

Il cammino di Orrin Evans, talentuoso e prolifico, prosegue anno dopo anno con un’agenda fittissima di concerti ed incisioni, da sideman come da leader. Si tratta ormai di un musicista ben affermato sul piano internazionale, che da anni persegue la via della riaffermazione e del rinnovamento del piano jazz, quello di scuola più che mai nera – non a caso parliamo di uno dei primi sostenitori e teorici della contestata BAM, che comunque trova una delle sue più lucide articolazioni proprio nell’opera di Evans. ‘#knowingishalfthebattle’, scritto così, proprio come un hashtag, è il logico successore del precedente ‘The Evolution Of Oneself’ e vede alla base il trio piano, basso (Lucques Curtis) e batteria (Mark Whitfield jr) a cui si uniscono diversi ospiti a seconda delle necessità. (Continua a leggere)