FREE FALL JAZZ

‘The Evolution Of Oneself’ segna, per Orrin Evans, il traguardo dei vent’anni di indefessa attività, nonché un sunto di tutto ciò che ha contribuito alla sua evoluzione di artista e uomo. Oltre alla musica, si parla della famiglia: a partire dalla moglie Dawn, che recita il testo di ‘All The Things You Are’ nella seconda versione del brano (una prima inaugura l’album e una terza, cantata da JD Walter, lo chiude), passando per i figli Miles (cui è dedicata ‘For Miles’) e Matthew, autore dei tre diversi remix hip-hop di ‘Genesis’. Questi suddividono idealmente il disco in tre capitoli, affrontati assieme ai formidabili Christian McBride e Karriem Riggins. La prima dell’album prosegue sulla scia degli ultimi lavori in trio. Troviamo la bellissima ‘For Miles’, già citata prima, e una nuova ‘Autumn Lives’ in cui il pianista dimostra tutto il suo talento nell’elaborazione dinamica del brano, da rubato in punta di dita ai fragorosi accordi finali su ritmo funk, variando in maniera ricorsiva brandelli del celebre tema; e mentre ‘Sweet Sid’ è un viaggio del blues e nel gospel, ‘Wildwood Flower’ è un’improvvisazione libera attorno ad un’asciutta chitarra country (Martin Sewell), per certi versi affine alle soluzioni dei Tarbaby. I tre non perdono mai del tutto il contatto reciproco né quello con la chitarra, in un avventuroso tiramolla. Fra ‘Genesis II’ e ‘Genesis III’ si viaggia nel funk, nel soul e nell’hip-hop, assorbendone il ritmo secco e i colori nelle trascinanti ‘Jewels & Baby Yaz’, ‘Iz Beatdown Time’ e ‘Spot It You Got It’, vicine al materiale di ‘Flip The Script’ ma ancora più decise nell’utilizzo di elementi black popolari contemporanei. L’ultima parte, da ‘Genesis III’ alla fine, è dedicata a persone care. La chitarra torna in una bella versione di ‘A Secret Place’ di Grover Washington, la pensosa, rarefatta ‘February 13th’ è per l’amico Eric Revis, il sentito soul ‘Red Ruby’ dedicato alla nonna.

Orrin Evans ci dà un bel sunto di tutta la sua arte, con versatilità e straordinaria forza espressiva. Al punto che, nonostante una durata di sessantotto minuti, ‘The Evolution Of Oneself’ non stanca affatto.
(Negrodeath)

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