Questo articolo è stato pubblicato su Musica Jazz di Luglio dello scorso anno e qui lo ripresentiamo nella sua forma originale (peraltro bozza pressoché integralmente pubblicata dopo piccole necessarie correzioni di cui ho tenuto conto). Come per le altre occasioni ho aggiunto i link dei brani citati a supporto della lettura, cosa che ovviamente su cartaceo non è possibile fare.
Ringrazio il direttore della rivista Luca Conti per la gentile concessione.
Riccardo Facchi
Ci sono vocaboli nella narrazione del jazz che sono a dir poco abusati, veri e propri stereotipi utilizzati in modo eccessivo e talvolta improprio. Uno dei più battuti è certamente il termine “rivoluzione” e sarebbe difficile rintracciare chi non abbia visto un qualsiasi scritto che parli del tema Free Jazz senza vedere dopo poche righe quel termine, peraltro stimolato e in parte giustificato dalla forte connotazione socio-politica di cui si è tinto negli anni ’60, legata alla cosiddetta “protesta nera”. Qualcosa di analogo successe peraltro già nel dopoguerra col be-bop (per certi versi fase musicalmente ancor più “rivoluzionaria”), quasi che si trattasse di eventi in musica improvvisi e traumatici capitati tra capo e collo, disegnando scenari di rottura netta col passato e relativa tradizione, invecchiando così istantaneamente qualsiasi cosa prodotta in precedenza. (Continua a leggere)
Quando esce un nuovo disco di Charles Gayle il rischio è di finire a ripetere sempre le stesse cose, dagli anni vissuti suonando per strada a New York alle esibizioni truccato da Streets il clown, magari ignorando che negli ultimi anni il musicista (e probabilmente anche l’uomo) è passato attraverso numerosi cambiamenti. È importante sottolinearlo, perché lavori come ‘Streets’ (2012) o il nuovo ‘Christ Everlasting’ sono frutto proprio delle metamorfosi di cui sopra. Figli di un Gayle che si stacca dai parossismi che hanno segnato i suoi dischi degli anni 90 (su tutti, ‘Repent’, ‘Touchin’ On Trane’ e ‘Consecration’), di un Gayle che sempre più spesso inizia ad alternare il sax tenore con il piano (suo strumento d’origine), di un Gayle che inizia ad esplorare gli standard jazzistici. (Continua a leggere)
Ora che è uscitò da un po’ di tempo possiamo dirlo: ‘Infanticide’, il secondo album di Caterina Palazzi, è assolutamente una delle cose migliori ascoltate in questo scorcio di 2015. Presto approfondiremo il discorso su queste pagine, intanto la notizia è che se domenica 3 Maggio voi che leggete siete dalle parti di Roma, potrete prendere i classici due piccioni con una fava. (Continua a leggere)
L’iniziativa viene da Nels Cline e Thurston Moore. I due chitarristi produrranno infatti ‘Fire Music’, un documentario sull’epopea del free jazz, come lascia intuire il titolo (lo stesso di uno dei capolavori di Archie Shepp). (Continua a leggere)
Nella sua lunghissima carriera, Cecil Taylor ha diretto formazioni di tutti i tipi, dal piano solo all’orchestra. Sempre sotto il segno radicale dell’iconoclastia, a volta fin troppo calcata quando non fine a sè stessa, in ogni caso mai banale. ‘Winged Serpent’ vede Taylor alla guida della Orchestra Of Two Continents, ovvero undici elementi proveniente da entrambi i lati dell’Atlantico. Troviamo gli americani Jimmy Lyons (contralto), Frank Wright (tenore), Karen Borca (fagotto), William Parker (contrabbasso), Andre Martined e Rashied Bakr (batteria), e gli europei John Tchicai (tenore), Enrico Rava e Tomas Stànko (tromba), e Gunter Hampel (baritono e clarone). Una simile bocca di fuoco viene utilizzata in ricche tessiture di fiati ed estatici crescendo che culminano in improvvisazioni collettive, spesso e volentieri caotiche, stridenti, ancorate a terra da ostinati di basso o dalla pulsazione suggerita da un pianoforte invasivo e martellante. (Continua a leggere)
I più attenti ricorderanno che William Parker, assieme ad altri ospiti, ha già suonato con gli Udu Calls (alias il fiatista Daniele Cavallanti e il batterista Tiziano Tononi) in occasione di ‘Spirits Up Above’ del 2006. ‘The Vancouver Tapes’, che vede coinvolti solo i due musicisti nostrani e il bassista della Grande Mela, non rappresenta però il passo successivo a quella collaborazione, bensì una sorta di prequel. Le registrazioni risalgono infatti al Vancouver Jazz Festival del 1999, frutto di un DAT inaspettatamente ritrovato da Tononi. La qualità audio è, prevedibilmente, abbastanza cruda (ma comunque più che sufficiente), fattore che se da una parte potrebbe scoraggiare certi puristi del suono, dall’altra riesce a rendere bene l’idea dell’impatto e della “ruvidità” che il trio ha sprigionato sul palco quel giorno di Giugno di ormai quasi sedici anni fa. (Continua a leggere)
La storia di questo disco dal vivo è ben nota. Si tratta di un concerto alla Temple University registrato nel novembre del ’66 con mezzi di fortuna: aneddotica vuole che un pubblico già sparuto avesse cominciato ad andarsene dopo la prima mezz’ora, che Coltrane, già malato, avesse suonato male, che gli studenti-organizzatori avessero finito per rimetterci. Le registrazioni bootleg, in giro da anni, restituivano un’immagine incompleta dell’evento. Ci ha pensato la Impulse a darne la versione definitiva e ufficiale, portando la qualità sonora a livelli poco meno che accettabili. In quest’ultima, discussa e controversa fase della sua carriera, Coltrane cercava la trascendenza attraverso la musica: dal jazz modale era partito verso l’India, l’Oriente e l’Africa, esplorando tutte le possibilità sonore della strumentazione fino a sfiorare i confini del rumore. (Continua a leggere)
Ho sentito parlare per la prima volta di Sun Ra quando del jazz ancora non sapevo nulla. Le pagine erano quelle di Rockerilla, nel dettaglio un articolo di Bertoncelli che prendeva una pagina intera e provava a tratteggiare un profilo del musicista in occasione dell’opera di recupero (portata avanti dalla Evidence) di parte del suo sterminato catalogo. (Continua a leggere)
Cosa mi affascina del Ganelin trio… Forse il ricordo di quando da giovane mi avvicinai a questa musica: la ricerca dei dischi, delle riviste e dei libri dei quali sentivi parlare. Eravamo un piccolo gruppo di carbonari, quei pochi, almeno dalle mie parti, che parlavano di jazz. Lo stesso si può dire di questo gruppo: il jazz arrivava dall’America, tutt’al più dall’Inghilterra, chi poteva immaginare che oltre la cortina di ferro ci fossero dei musicisti come loro? La loro qualità emergeva già nei primi dischi prodotti e registrati dall’etichetta di stato Meloydia, rimasti introvabili per anni e poi grazie anche a Ebay e alla caduta del muro diventati di più facile reperibilità, e se non fosse stato per l’imperfezioni dei vinili forse sarebbero di spessore ancora maggiore di questo disco. (Continua a leggere)
Uscito ormai dieci anni fa, ‘New Thing’ è una sortita in solitario di Wu Ming 1, esponente del noto collettivo Wu Ming. Non si tratta comunque di un saggio musicale, quanto piuttosto di un romanzo ambientato a New York durante la tumultuosa seconda metà degli anni ’60, con le contestazioni, gli scontri e la musica del caso – nello specifico, il free jazz. Assemblato come collage di articoli di giornali, stralci documentaristici e spezzoni d’intervista, il libro parla della vicenda del Figlio di Whiteman, un assassino di musicisti free. La polizia brancola nel buio, solo una giornalista un po’ hippie del Brooklinyte collega i delitti fra di loro ipotizzando una mano comune. Qua e là, a spezzare il flusso della narrazione, troviamo i pensieri di un John Coltrane prossimo alla fine. Descritto così, ‘New Thing’ potrebbe sembrare anche interessante. Purtroppo i nodi vengono rapidamente al pettine dopo sole poche pagine. Intrecciare fatti realmente avvenuti con la finzione e utilizzare uno stile “multimediale” non è una novità, ma senza pretendere le vette di James Ellroy e John Dos Passos, è almeno lecito sperare in qualcosa di meno infantile e stereotipato. (Continua a leggere)