FREE FALL JAZZ

no sax no glory's Articles

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Il contraltista William “Sonny” Criss è uno dei tanti esempi di sottostima, financo di ingiusto oblio, di cui è zeppo il racconto della storia del jazz. Le ragioni nel suo caso sono diverse e sovrapponibili. Tra quelle citabili, una, abbastanza comune ad altri, è legata alla modalità con la quale si racconta solitamente la storia di questa affascinante, e per certi versi ancora misteriosa, musica, ossia una sorta di epica intensa, fatta da una rapida sequenza cronologica di singoli geni, protagonisti di svolte o sedicenti “rivoluzioni” epocali, piuttosto che da una articolata sovrapposizione di interscambi e contributi, chi maggiori chi minori, che si sono intrecciati tra loro (non si dimentichi la tradizione fondamentalmente orale della cultura africana- americana), componendo come un puzzle il quadro generale. (Continua a leggere)

Quando esce un nuovo disco di Charles Gayle il rischio è di finire a ripetere sempre le stesse cose, dagli anni vissuti suonando per strada a New York alle esibizioni truccato da Streets il clown, magari ignorando che negli ultimi anni il musicista (e probabilmente anche l’uomo) è passato attraverso numerosi cambiamenti. È importante sottolinearlo, perché lavori come ‘Streets’ (2012) o il nuovo ‘Christ Everlasting’ sono frutto proprio delle metamorfosi di cui sopra. Figli di un Gayle che si stacca dai parossismi che hanno segnato i suoi dischi degli anni 90 (su tutti, ‘Repent’, ‘Touchin’ On Trane’ e ‘Consecration’), di un Gayle che sempre più spesso inizia ad alternare il sax tenore con il piano (suo strumento d’origine), di un Gayle che inizia ad esplorare gli standard jazzistici. (Continua a leggere)

Dopo un album eclettico come ‘Moments’, uscito in sordina nel 2010, il giovane sassofonista James Brandon Lewis inaugura il suo contratto con la rinata Okeh (avete letto bene) con ‘Divine Travels’, un nuovo lp nel classico formato sax-basso-batteria. Gli esempi illustri in tal caso si sprecano, e certo confrontarsi coi nomi di Sonny Rollins, Joe Henderson, Branford Marsalis o Joe Lovano, per esempio, non è la cosa più facile del mondo. Tuttavia James può contare su una sezione ritmica strepitosa formata da due suoi mentori, ovvero William Parker (contrabbasso) e Gerald Cleaver (batteria); affermare che a questo punto il disco si fa da solo è ingeneroso e scorretto, ma allo stesso tempo la chimica speciale fra i tre si sente. (Continua a leggere)

“Bags”, come sappiamo, è il nomignolo affibbiato a Jackson per via delle borse sotto gli occhi, una “bean bag” è una sacca riempita di fagioli secchi… chi sarà mai il “Bean” della situazione? Ma ovviamente Coleman Hawkins! Scemenze a parte, “Bean Bags” fa parte della lunga serie di album incisi da Milt Jackson su Atlantic. Accompagnati da una formazione deluxe (Tommy Flanagan al piano, Kenny Burrell alla chitarra, Eddie Jones al contrabbasso, Connie Kay alla batteria), Bean e Bags affrontano sei brani sovrapponendo due diverse generazioni di jazz. Hawkins e Jones infatti sono musicisti dell’era dello swing, mentre gli altri sono emersi negli anni del bebop: quello che ne esce fuori, se vogliamo, ricorda quel fertilissimo periodo di quindici anni prima in cui Coleman Hawkins stesso, alla guida di piccole formazioni composte da quei musicisti che di lì a poco avrebbero sconvolto le acque, innervava il classico di una tensione nuova. (Continua a leggere)

Fra un related e l’altro è saltato fuori questo magnifico concerto di Ben Webster, assieme al trio di Oscar Peterson. Dal momento che, negli ultimi anni della sua vita, Big Ben viveva ad Amsterdam, è lecito immaginare che l’esibizione sia stata filmata da una tv olandese. Pronti? Via!

 Parte 1:

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“L’idea è di fare un secondo album entro la fine del 2012, dovrebbe essere una registrazione dal vivo”: David S. Ware ce lo aveva anticipato nella nostra intervista dello scorso Gennaio. Quel che non sapevamo, è che la registrazione live era già “in cassaforte”, ossia l’incendiaria partecipazione del quartetto Planetary Unknown al Saalfelden del 2011, che vede appunto oggi la luce in versione integrale grazie alla solita AUM Fidelity. Ai più attenti in realtà non suonerà tutto completamente nuovo: lo scorso 27 Marzo parte del concerto (nello specifico i 33 minuti della traccia d’apertura, ‘Precessional 1’) è stata infatti trasmessa dalla nostra Radio 3. Rispetto a quel cospicuo assaggio, la versione su CD si arricchisce di due ulteriori tracce (stesso titolo della prima, ma numerate progressivamente) che alzano la durata complessiva a circa 65 minuti.

I tre movimenti di cui si compone il lavoro seguono la scia dell’ottimo ‘Planetary Unknown’ di dodici mesi fa, continuando a sfruttare lo stesso approccio basato sull’improvvisazione (cosa relativamente insolita per Ware, quasi sempre rimasto fedele alla scrittura). La citata ‘Precessional 1’ è forse anche quella più indicativa della loro marca di free jazz: parte in quarta e per quindici minuti procede a rotta di collo, senza un attimo di tregua. (Continua a leggere)

La settimana scorsa l’IFC Center di Manhattan, forse il più famoso cinema indipendente del mondo, ha ospitato un piacevole ripescaggio: la proiezione del documentario ‘Ornette: Made In America’, realizzato nel 1985 da Shirley Clarke (che dovreste ricordare per ‘The Connection‘) e dedicato ovviamente al sassofonista di ‘The Shape Of Jazz To Come’.

La pellicola è stata completamente restaurata in digitale e, nella speranza di poterne presto godere in versione DVD (annunciata vagamente in arrivo per il prossimo inverno, ma la buona notizia è che dovrebbe esserci persino il Blu Ray), vi lasciamo con un piccolo assaggio.