FREE FALL JAZZ


‘Planetary Unknown’ è stata una delle note più liete dell’anno appena trascorso. Non solo dal punto di vista musicale, per l’ennesima buona prova di musicisti che ormai da tempo sono garanzia di qualità, quanto anche per la gioia di rivedere con un sassofono tra le labbra il leader di quella formazione, David S. Ware, reduce da un delicato trapianto di rene. Che della sua musica ne avremmo riparlato a fondo l’avevamo promesso al tempo del suo documentario ‘A World Of Music’, e dunque quale migliore occasione di un’approfondita intervista? Per chi non fosse particolarmente familiare con la sua proposta, possiamo innanzitutto dire che Ware va inquadrato in quel gruppo di musicisti che hanno animato la scena free newyorkese tra la fine degli anni ’60 e il decennio successivo, differenziandosi però da molti colleghi per una ricerca sonora che non perde mai troppo di vista l’amore per la melodia. Collaborazioni importanti con Cecil Taylor e Andrew Cyrille hanno contribuito a forgiarne quello stile personale e riconoscibilissimo sbocciato poi definitivamente nei lavori pubblicati a suo nome. Inizialmente in trio, è col quartetto che Ware trova infine la quadratura del cerchio: a fargli (più o meno regolarmente) compagnia pezzi da novanta come il fido William Parker al basso e il pianista Matthew Shipp, più uno stuolo di batteristi tra i quali Susie Ibarra e Muhammad Ali, per dirne solo due. È forse ‘Flight Of I’ del 1992 il più rappresentativo di una discografia ricca di titoli di qualità, la quale, come egli stesso ribadisce durante l’intervista, resta prova concreta di come free jazz e tradizione siano concetti tutt’altro che antipodici.

Cos’è per te, il jazz?
Un modo per esprimere sé stessi attraverso uno strumento musicale in maniera armoniosa, ma anche molto creativa. La creatività ne è la parte più grande: per quanto possibile, uno dovrebbe cercare di non ripetersi. È qualcosa di universale, il jazz. Può elevare il tuo spirito.

È per questo che la spiritualità è un tema così ricorrente nella tua musica come in quella di molti altri jazzisti, da Coltrane a Sanders, passando per Ayler e Sun Ra?
La spiritualità si manifesta attraverso ognuno, indistintamente, magari non sempre allo stesso modo. I musicisti non fanno eccezione, chiaro. E poi dà un senso ad ogni cosa: senza di essa, nulla ha significato. È la base di tutto.

Ne hai parlato anche in ‘A World Of Music’, documentario pubblicato sul sito della David Lynch Foundation. Anche il regista americano è un noto sostenitore della meditazione spirituale.
Non l’ho conosciuto, non ho avuto contatti diretti con lui. Loro erano interessati ad artisti che praticano la meditazione trascendentale, ed è risaputo che io la pratico da quarant’anni: è così che è partito tutto. Mi hanno contattato e poi la troupe è venuta a New York per intervistarmi e riprendere un po’ di musica dal vivo. Una bella esperienza.

Prima ancora del sax il tuo amore è stata la batteria.
È come essere attratto da una macchina in particolare: senti che ti calza a pennello. Il ritmo è parte della vita, ed io quei ritmi desideravo tanto esprimerli. Non che con altri strumenti non fosse possibile, beninteso.

E infatti poi sei approdato al sassofono. Pensi che il tuo modo di suonare questo strumento sia stato influenzato dal tuo amore per il ritmo e le percussioni?
Sicuro. Tutto nel corso degli anni ti influenza, e non parlo solo di vicende musicali: qualunque esperienza umana può avere effetto sul modo in cui suoni uno strumento.

E che effetto hanno avuto su di te i tre semestri che hai frequentato al Berklee? Negli anni non ti sei espresso con parole molto dolci al riguardo.
Mettiamola così: quando a 17 anni sono arrivato al Berklee, la direzione che avrei voluto intraprendere come musicista era già ben chiara e definita. Lì quindi ho imparato il resto, ossia tutto quel che non volevo fare.

Di certo non ti hanno insegnato la respirazione circolare, quella l’hai imparata da Sonny Rollins. Come l’hai convinto?
Non l’ho convinto. Ero solito andarlo a vedere quando veniva a suonare nel Greenwich Village; a un certo punto l’ho avvicinato e gli ho detto che mi sarebbe piaciuto fargli sentire come suonavo: la nostra relazione musicale è iniziata così. Dopo abbiamo iniziato a provare spesso insieme, ma non c’è mai stato alcun tipo di istruzione: semplicemente, ci limitavamo a suonare in completa libertà. Non ha cercato di inculcarmi la sua parola.

A proposito di Greenwich Village: appena trasferito da quelle parti hai sbarcato il lunario facendo il tassista. La New York City degli anni ’70 era proprio così dura come veniva dipinta in pellicole tipo ‘Taxi Driver’?
Non te la prendere, ma sono ricordi che preferirei non condividere pubblicamente.

Il tuo obiettivo era già di riuscire a vivere della tua musica, a quei tempi?
Riuscire a vivere di musica per me è una sorta di effetto collaterale. Suono perché la amo e mi eccita il potenziale di una certa band, riuscire a mantenermi viene dopo. Mi ritengo fortunato perché riesco a non pensare alle note come un semplice lavoro. Alla fine la musica mi dà da vivere, ovvio, ma non è quella la prima intenzione: è la musica stessa.

Le tue prime incisioni risalgono alla fine dei ’60, nel progetto ‘Third World’ di Abdul Hannan, con il quale provi a fondere free jazz e sonorità etniche/africane. Quel disco uscirà solo qualche anno dopo (nel ’71), quando Gato Barbieri vi avrà già “bruciato” sul tempo con un album dallo stesso titolo e dall’idea di base molto simile. Coincidenza?
Nel 1968 io, Abdul e un nostro amico avemmo un incontro a New York con un tipo che lavorava per una rivista, mi pare fosse Jazz Magazine, la quale spingeva molto Gato Barbieri; parlammo del nostro concept ‘Third World’ e gli lasciammo un nastro. Qualche tempo dopo lo richiamammo per sapere cosa ne pensava della nostra musica e la sua risposta ci sembrò assurda: disse che non avevano potuto ascoltare il nastro perché non avevano alcun apparecchio per farlo girare. Di lì a poco Gato venne fuori con lo stesso concept e subito pensammo che tramite quelli della rivista ci avesse rubato l’idea. Tuttora non penso fu una coincidenza, ma cosa potevamo fare? Non sapevamo un bel niente di come funzionassero le cose, all’epoca. Eravamo molto ingenui.

Successivamente hai suonato come sideman alla corte di Cecil Taylor e Andrew Cyrille. Quanto cambiava il tuo approccio allo strumento da un contesto all’altro?
Erano due modi di approcciarsi all’improvvisazione molto diversi. Cecil Taylor struttura le sue composizioni in un certo modo, una volta elaborato un tipo di improvvisazione adatto al suo sistema musicale puoi usarlo sempre. Con Andrew invece varia ad ogni pezzo, devi adattarti canzone per canzone.

Alla fine dei ’70 hai inciso, per la prima volta da leader, un paio di dischi piuttosto oscuri, neanche mai ristampati su CD. Puoi fare un po’ di luce su quelle uscite?
‘From Silence To Music’ fu particolare: ero in tour a Parigi e mi venne offerto di registrarlo, dopodiché non ne seppi quasi più nulla, credo l’etichetta andò in fallimento o qualcosa di simile. Qualche tempo dopo invece andammo in studio e registrammo un nastro: la Hat Hut si dimostrò interessata, ne acquistò i diritti e fece uscire ‘Birth Of A Being’.

Cosa ti ha spronato a fondare un trio/quartetto tutto tuo così tardi? Suonavi già da molto: non avevi mai sentito il bisogno di esprimerti in un contesto da leader prima?
In realtà già quando negli anni ’70 suonavo con gli Apogee (il trio con cui registrerà ‘Birth Of A Being’, seppure pubblicato a suo nome, nda.) mi pareva di elaborare un mio suono personale, nonostante il contesto fosse quello di un gruppo. Tutto ciò mi ha dato la possibilità, quando ho infine fondato il mio quartetto vero e proprio, di avere un certo serbatoio di idee già sviluppate da cui attingere, sia che si trattasse di musica con melodie ben precise che senza.

Nel 1988 la Silkheart pubblica ‘Passage To Music’, esordio del tuo trio. Come firmasti per loro?
Stavano mettendo sotto contratto un sacco di gente a quei tempi. Penso fossero molto interessati alla scena di New York, ed io ne facevo parte.

Ne faceva parte anche un altro sassofonista che apprezzo molto: Charles Gayle. Hai suonato spesso con lui e nello stesso periodo firmò con la medesima etichetta: ci fu il tuo zampino?
No, non lo aiutai: fu tutto merito suo, io non c’entro nulla. Posso dire solo belle cose su di lui: è un musicista fantastico, col sassofono è un’autentica forza della natura! Ricordo con molto piacere un concerto che facemmo insieme a Saalfelden, mi pare fosse il 1995: esperienza divertentissima.

Come ti trovi a suonare insieme a un altro sassofonista?
Generalmente preferisco essere l’unico sax, dato che per la maggior parte della mia carriera ho suonato in questo modo: ho bisogno di sviluppare le mie idee senza dover interagire con qualcun altro che suona lo stesso strumento. Ormai ho assimilato questo modo di lavorare, mi basta la mia band per ottimizzare le mie composizioni.

Quanto è importante la tradizione per il free jazz? Dai ’90 in poi il free ha attirato molti ascoltatori dalla scena rock, magari attratti dalla sua natura “radicale” ed “estrema”, ma che spesso non hanno idea di Coleman Hawkins, Lester Young o persino dell’hard bop.
Non importa se non ne hanno idea. Per esempio, in un musicista come me, la tradizione esiste ed è evidente nel modo di suonare. È per questo che mi piace molto anche suonare da solo, senza accompagnamento: ascoltando un solo strumento la gente può sentire ancora meglio come la tradizione sia parte del mio bagaglio e da lì magari andare a ritroso e scoprire il resto.

Nei ’90 sei stato, grazie all’intercessione di Branford Marsalis, tra i pochi musicisti free ad incidere per una major, la Columbia per l’esattezza. Era facile incidere per una grossa etichetta?
Era facile nel senso che mi davano la libertà di fare ciò che volevo. Rispetto a un’etichetta indipendente invece era molto più difficile fargli capire cos’è che cercavamo di suonare.

‘Planetary Unknown’ è storia dei giorni nostri e penso sia tra le cose migliori che tu abbia mai fatto. Che tipo di aspettative avevi verso questo disco?
Aspettative molto alte, senza dubbio. E ne ho ancora adesso: se la salute me lo consente, penso che ci sarà tanta altra musica da questa band. L’idea è di fare un secondo album entro la fine del 2012, dovrebbe essere una registrazione dal vivo.

A proposito: possibilità di vedervi da queste parti?
Certo, siamo sempre ben disposti a venire in Europa, teniamo in considerazione qualsiasi proposta. Con ogni probabilità ci saranno concerti europei nel corso dell’anno.

Intervista raccolta da Tony Aramini

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