FREE FALL JAZZ


Il musicologo e direttore artistico di “Aperitivo in Concerto” Gianni Morelenbaum Gualberto ci ha spedito per la pubblicazione in rete un interessantissimo contributo scritto, che propone una attenta riflessione sulla figura artistica, spesso immotivatamente sottovalutata, di Oscar Peterson. Si tratta in realtà, precisa Gualberto, di note introduttive scritte di un fiato, in vista di un saggio in preparazione che andrebbe ad analizzare in dettaglio la sua opera e il suo contributo. Lo ringraziamo per la gradita opportunità che ha voluto riservarci.

In un recente post su Facebook sul ritiro dalle scene di Phil Woods, ho sostenuto che il jazz in Italia – fra involontarie topiche e veri e propri falsi dettati da volontà e caso – sia stato narrato e manipolato in modo improprio, riflettendo – nel suo miscuglio fra aspirazioni di placidi borghesi in caccia di emozioni e aspirazioni di piccolo-borghesi altrettanto reazionari e conservatori celate dietro il paravento di “ismi” duri a morire – un ritardo culturale iniziato secoli fa e incancrenitosi nel tempo per molteplici motivi.

Una fra le tante “vittime” di tale fiorente connubio fra incultura, approssimazione e pregiudizio, è stata l’arte di Oscar Peterson, spacciata per spettacolare quanto insignificante virtuosismo. In genere diffido di chi si scaglia contro la “spettacolarità” di alcune aree del jazz e della musica africano-americana, perché il più delle volte esprime un disdegno fintamente intellettualistico per quei rapporti con il cosiddetto “entertainment” che sono loro connaturate, sia per tradizione che per imposizione (basti pensare alle ambiguità di cui è fitto il “minstrelsy” o ai giochi di inquietanti rimandi che esiste fra lo stesso “minstrelsy” e il “minstrelsy” africano-americano, in cui gli artisti di colore erano costretti a mimare sé stessi, giungendo a “scurire” artificialmente la propria pelle per essere più “nella parte” così come imponeva il pubblico bianco), ed in cui è inclusa anche quella teatralità che gli africano-americani hanno coltivato sin dalle loro origini, dalle danze per intrattenimento all’esperienza del The African Theatre di William Brown e James Hewlett nel 1821 a New York, dai “floor show” alla memoria dei griot presenti nella drammatica “clownerie” di Rahsaan Roland Kirk o nella “psichedelia” di Sun Ra. Non disgiunto da teatralità, da ambiguo sarcasmo, da pungente quanto inquieta ironia era il virtuosismo di Fats Waller, la cui arte rimane uno dei vertici espressivi della musica africano-americana. E lo stesso si può dire del virtuosismo “fuori misura” di Art Tatum, una veste sgargiante che ricopriva un’arte improvvisativa di suprema raffinatezza e ingegnosità armonica, una gargantuesca capacità di parafrasi e variazioni, un’inarrestabile capacità di delineare armonie sostitutive (per non parlare del tocco, dell’uso e del controllo totale della tastiera, del senso del ritmo e dello swing): un fenomeno lessicale di tali proporzioni da autocandidarsi inevitabilmente alla marginalità per eccesso di talento, come in qualche modo lasciava intuire Teddy Wilson: “Back in the old days, we put Tatum in a special category and did not discuss him as a jazz pianist–he was in a category by himself, and we then talked about the others; those who played in bands”.

Fine ancora più ingloriosa ha fatto Oscar Peterson presso la critica musicale italiana (e non solo, va detto), unita nei due versanti – tradizionale e “avanguardista”- solo apparentemente opposti, in realtà caratterizzati delle stesse lacune e dalle stesse incapacità di analisi e lettura: un insignificante rodomonte della tastiera, superato dai tempi già in vita, un modello di estroverso quanto ininfluente pianismo da show-business e entertainment. Un virtuosismo tutto digitale, dunque, mai intellettuale. D’altronde, il virtuosismo (che pure distingue, fra scuole diverse e diverse impostazioni culturali e intellettuali, un numero non indifferente, ad esempio, di pianisti accademici: dalla scuola lisztiana a quella russa, dai tardo-romantici ai moderni e contemporanei, da Thalberg a Glenn Gould, da Byron Janis a Van Cliburn, da Vladimir Horowitz a un contemporaneo come Marc-André Hamelin, ecc.) nel jazz ha spesso suscitato imbarazzi, perché turba l’ideologica “supremazia delle idee” di un’arte che ha vissuto un’esogena quanto forzata “intellettualizzazione” applicata con strumentale genericità. Il jazz “doveva” competere con la musica accademica europea, “doveva” dimostrare di essere l’arte degli oppressi che si affermava per diversità e per pari risultato a quella degli oppressori, “doveva” forzosamente dimostrare la sua diversità positiva: un’operazione che in qualche modo intendeva creare ex post quel Bartolomé de las Casas che gli schiavi africani nelle Americhe non avevano mai avuto. Il virtuosismo, pienamente accettato e lodato nell’accademia europea, negli africano-americani -con curiose forme di razzismo alla rovescia- diventava una digitalità tutta manuale, una forma di jonglerie e di spettacolarità tutta esteriore, qualcosa di pericolosamente somigliante a uno sport, a una capacità solo fisica e non intellettiva. Esso pareva vantare una parentela troppo stretta con lo show-business, con lo sfruttamento imposto dall’entertainment che già si era espresso con la crudeltà del minstrelsy e che aveva “creato” – per la cinica meraviglia dei bianchi- “fenomeni” come Blind Tom Wiggins, era uno ziotommismo che si mostrava nelle vesti di alcuni sorprendenti “idiot savant” (come descrivere altrimenti il disagio di molti nel considerare un rivoluzionario come Fats Waller, un carro di Tespi straordinariamente umano come Roland Kirk o una sorta di scheggia impazzita quale Erroll Garner o, ancora, un virtuoso geniale ma troppo “burlone” come Dizzy Gillespie?).

A procedere alla costante fucilazione di Peterson ha, non casualmente, contribuito eminentemente quella critica (negli Stati Uniti come in Europa) che Amiri Baraka accusava di essere prevalentemente composta da “middlebrow” (“Most jazz critics were (and are) not only white middle-class Americans, but middlebrows as well. The irony here is that because the majority of jazz critics are white middlebrows, most jazz criticism tends to enforce white middlebrow standards of excellence as some criterion for performance of a music that in its most profound manifestations is completely antithetical to such standards; in fact, quite often is in direct reaction against them”). Agli occhi della critica “middlebrow”, Oscar Peterson è poco interessante: un professionista privo di qualsiasi caratteristica che possa avere rapporto con l’abituale iconografia bianca dell’artista africano-americano. Nell’immaginifica narrazione di una musica anti-sistema, il comportamento dell’esponente di tale musica deve possedere una fisionomia altrettanto anti-sistema: buona parte della storia del jazz e della tradizione culturale africano-americana è stata alimentata, e lo è a tutt’oggi, da stereotipi e detriti borghesi post-romantici di marca europea. Nell’inventare letteralmente una conveniente storia di alcuni africano-americani a detrimento di altri (un’ideale prosecuzione di quella contorta e perversa “Negrophilia” descritta da Petrine Archer-Straw), basandosi esclusivamente su presunte “purezze ideologiche” cui correva l’obbligo di una lettura falsante per giustificare la propria esistenza, alcune aree della critica musicale e della musicologia d’argomento africano-americano hanno di fatto esercitato un neo-colonialismo di pretta marca fascista e razzista che ha operato e ancora opera aberranti discriminazioni. In tale mitopoiesi, il confine fra “jazz” e successo popolare (prontamente etichettato come “commercializzazione”, senza alcuna valutazione oggettiva del fenomeno) è severamente demarcato e non sono tollerati sconfinamenti (per quanto poi si tratti di nient’altro che di una reazionaria riproposizione della borghese concezione della “bohème” sotto altre spoglie): il che è valso per artisti di superiore grandezza come Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Nat King Cole e, se vogliamo -in altri contesti- anche Dave Brubeck, George Shearing e Frank Sinatra. Il peccato in tal senso commesso da Peterson era già evidente negli anni Cinquanta, come testimonia un articolo di “Down Beat”, in occasione della pubblicazione dell’album “Romance” per la Verve, in cui Peterson si presentava anche come interprete vocale (Ted Hallock, “‘I’m Not Copying Nat,’ Claims Peterson in Bop-to-Pop Move,” Down Beat, 7 maggio 1952): “Granz has said to Peterson that ‘you can be either a collectors’ item or a buyers’ interest. Or something in between.’ Oscar wants that ‘in between’ music. He says: ‘We’ll try, in recordings, to satisfy both camps with a jazz side and a standard vocal side. I won’t, however, let vocals overshadow my playing.” In quegli anni Peterson mostra chiaramente di non voler essere confinato allo specialismo, con lavori discografici quali Nostalgic Memories (1950), Pastel Moods (1952), In a Romantic Mood (1955), Soft Sands (1956), nonché alcune incisioni con Fred Astaire, il che lo segna negativamente agli occhi degli autonominatisi guardiani dell’ortodossia, sia negli Stati Uniti (dove la segregazione non era solo razziale ma sociale e dove la sovrapposizione di ruoli era mal tollerata, soprattutto da parte di un africano-americano, per quanto canadese) che in Europa, dove il sospetto di “commercializzazione” avrebbe aizzato sia la vecchia guardia della critica che i nuovi alfieri (che oggi conoscono una nouvelle vague altrettanto snobisticamente e ridicolmente feroce) di una “dirittura morale” di ordine para-ideologico. Come doveva commentare molti anni dopo John McDonough (John McDonough, “He Draws Fire — and Crowds,” The Wall Street Journal, 11 gennaio 1995): “Paradoxically, though, it has been Peterson’s altitudinous technique that has brought him the most grief from jazz critics. Only in jazz, whose roots are in folk art but whose dreams are in the high-art clouds, could such an intellectual inversion occur. But there is something in this music that is profoundly suspicious of technique without rough edges; something that regards precision as the enemy of freedom, and craftsmanship as camouflage”.


Peterson viene così affiancato all’altro dinosauro che non aveva trovato chiara collocazione fra gli etichettatori stilistici di professione: Art Tatum. Nonostante il suo pianismo abbia radici affatto diverse, chiaramente del tutto estranee allo sfoggio virtuosistico e pirotecnico fine a sé stesso, quali James P. Johnson, Teddy Wilson, Nat King Cole, artisti dal pianismo sofisticato, inclini, casomai, all’understatement e a un approccio improvvisativo di stampo pressoché compositivo (e non deve sorprendere che la formazione originariamente accademica lasciasse in Peterson un segno indelebile nell’articolazione del proprio pensiero musicale: la drammatica e agile vivacità di Scarlatti, il contrappunto bachiano, le armonie di Chopin, Debussy e Ravel affiorano non di rado nelle sue composizioni e improvvisazioni). Che Peterson, ciononostante, venerasse Tatum è cosa risaputa, ma si sbaglierebbe grossolanamente a farne un suo semplice e semplicistico epigono.

Africano-americano canadese, di cultura e preparazione affatto diverse rispetto a molti artisti africano-americani statunitensi, Peterson (che pure ha conosciuto bene le problematiche razziali anche in patria) non concepisce l’etichetta che gran parte della critica e musicologia bianche hanno apposto al jazz: egli vi vede più di chiunque altro una purissima forma d’arte, un linguaggio creativo che richiede non solo genio e sregolatezza ma feroce applicazione, disciplina, studio, accumulo di bagaglio tecnico e lessicale oltre al talento. Quando egli crea a Toronto, nel 1960, con il clarinettista canadese Phil Nimmons, con Ray Brown e Ed Thigpen l’ Advanced School of Contemporary Music, Peterson insiste perché ad ogni allievo venga impartito un completo insegnamento formale: “The present state of technical knowledge and instruction does not fulfill all the needs of communication in the jazz medium… I’m writing the first of a series of technical studies for jazz piano. It is my ambition to make a definitive technical contribution to jazz.” Al contrario dei suoi colleghi statunitensi, egli attribuisce al repertorio una funzione preziosa e lamenta che gli africano-americani, al contrario, non s’interessino a sufficienza all’aspetto compositivo nel linguaggio improvvisativo: “I don’t know why we don’t have these works. Perhaps it’s because we have so many players (the Charlie Parkers) as opposed to writers (the Duke Ellingtons)” (Morris Duff, “Oscar Peterson takes a holiday,” Toronto Daily Star, 6 gennaio 1964). Questa insistenza sull’aspetto tecnico, pedagogico e educativo porta Peterson a scontrarsi anche con alcune icone dell’avanguardia, il che ancora di più lo compromette agli occhi di una critica che, in realtà, non esalta i valori (che ci sono, e indiscutibili) di detta avanguardia ma semplicemente li giudica alla luce di un’intollerante, occhiuta soggettività e di serie di angusti, vetusti e reazionari cliché che durano a tutt’oggi: “We put up with standards in jazz that are intolerable in classical music. How often do you hear a really bad performance on the concert stage? How long do you think it takes to really learn an instrument so that you can go out and perform? Now how does somebody like Ornette Coleman get to learn the violin in 18 months or two years? I question this . . . the public is being fooled” (Leonard Feather, “Jazz Beat – Peterson: No Oscar For the Critics,” New York Post 9 maggio 1965). Non a caso, un compositore e pianista di consistente preparazione come Lalo Schifrin è fra i più espliciti nel valutare il rapporto fra il pianismo petersoniano e la sua opera di “traduzione” in termini africano-americani del virtuosismo accademico tardo-ottocentesco: “In the nineteenth century, somebody said that Liszt conquered the piano and Chopin seduced it. Oscar Peterson is our Liszt and Bill Evans is our Chopin” (Gene Lees, “Evans: jazz piano’s Chopin,” Globe and Mail, 3 agosto 1972, pag. 11) . E, ancora: “Oscar represents a tradition lost in this century — the virtuoso piano improviser, like Chopin, the tradition of bravura playing that started with Beethoven and reached its apotheosis with Franz Liszt. After that, the pianists began playing what was written. Oscar is true romantic in the 19th-century sense, with the addition of the 20th-century Afro-American jazz tradition. He is a top-class virtuoso” (Gene Lees, “Best Damn Jazz Piano,” Maclean’s, luglio 1975).

Se, come piuttosto debolmente sostiene Ted Gioia (The Imperfect Art, Oxford University Press, Oxford 1988), l’improvvisazione appartiene all’”estetica dell’imperfezione” opposta all’”estetica della perfezione” rappresentata dalla composizione, appare chiaro che per Peterson l’improvvisazione deve raggiungere risultati di pari efficacia e complessità rispetto al processo compositivo. È altrettanto evidente che gli è impossibile riconoscersi nella sintetica descrizione abbozzata da Gioia: “Improvisation is doomed, it seems, to offer a pale imitation of the perfection attained by composed music. Errors will creep in, not only in form but also in execution; the improviser, if he sincerely attempts to be creative, will push himself into areas of  expression which his technique may be unable to handle. Too often the finished product will show moments of rare beauty intermixed with technical mistakes and aimless passages. Why then are we interested in this haphazard art?

Il perfezionismo di Peterson si scontra con un’idea preconcetta, ma ampiamente frequentata dalla critica sino ai giorni nostri, di improvvisazione: quest’ultima è esclusivamente concepita e apprezzata in termini di “scorrettezza”, di “innovazione”, di “rottura delle regole”, di “infrazione”, insomma di “rivoluzione permanente”, venendo costantemente e implacabilmente paragonata alla tradizione accademica occidentale e in base ai parametri di quest’ultima. Come se, insomma, esistessero due sole possibilità: l’adesione ai canoni occidentali o il (meritevole, in tal caso) rifiuto di essi. La questione va posta in un contesto più ampio: è vero che il jazz fa parte di una tradizione musicale che s’è dovuta ricostruire e reinventare in altri luoghi e con altri strumenti. Ed è indiscutibile che in tale ricostruzione e reinvenzione sono subentrate numerose forme di vera e propria sovversione, metafora di scontri ben più vasti e drammatici. La descrizione che Cecil Taylor fa del pianismo di Horace Silver è significativa: “the real thing of Bud [Powell], with all the physicality of it, with the filth of it, and the movement in the attack”; una “Negro idea” che pare ben lontana dal nitore petersoniano, da quel suo stile esecutivo limpido che parrebbe proporre un compromesso con l’accademia europea e che sembra  suonare fortemente critico nei confronti di una mancanza di sofisticazione nel jazz. Pure, come aveva già fatto notare Lalo Schifrin citando Bill Evans, l’idea di fare uso innovativo nell’improvvisazione jazzistica di tecniche e lessici strettamente connessi all’accademia europea non è così fuori dal comune. Né è fuori dalla tradizione del jazz l’idea di “costruire” un assolo nel corso di diverse performance, “fissandolo” in una sorta di stesura definitiva. Come fa notare Andy Hamilton, nel suo prezioso saggio intitolato “The Art of Improvisation and the Aesthetics of Imperfection” (British Journal of Aesthetics 40 No. 1, gennaio 2000): “Most jazz musicians up to the Swing Era would have felt no compunction in rehearsing and working-up their solos. Billie Holiday was one among many whose performances of the same song varied only in minor details, though her interpretations evolved over time. Harry Carney from the Ellington orchestra rarely varied his solos on given numbers at all. The influence of Charlie Parker in the artistically self-conscious modern jazz of the 1940s was paramount in generating an ideal of genuinely spontaneous creation. But performers with his genius, where alternative takes of the same song at the same recording session will be radically different, remain very rare.” Egli inoltre sottolinea un caso ancora più specifico, ricordando una cronaca del Downbeat del maggio 1978: “How much is improvised? Tonight, [Ray] Bryant played ‘After Hours’ in a note-for-note copy of the way he played it on the Dizzy, Rollins and Stitt album on Verve some fifteen years ago. Was it written then? Or worse. Has he transcribed and memorised his own solo, as if it were an archaeological classic? It was fine blues piano indeed, but it was odd to hear it petrified in this way.

A partire dal bop si è dunque creata una mitologia dell’improvvisazione, una narrazione, tutta occidentale e tutta (anche ideologicamente) di derivazione post-romantica europea. Essa concepisce e accetta solo la versione più estrema e radicale della composizione istantanea e ha operato una conventio ad excludendum nei confronti di quegli interpreti che, per volontà o per caso, non rientravano in una estremizzazione che, con la predilezione per l’hic et nunc, non solo ha favorito una perenne sopravvivenza di avanguardie che linguisticamente non erano più tali da decenni, ma anche l’incultura di una progressiva cancellazione del passato non aderente ai canoni prefissati. Di conseguenza, ha incoraggiato la mancata conoscenza di uno sviluppo linguistico e culturale nella sua fisionomia più completa e integra. Nell’imperfetta identificazione fra “improvvisazione” come linguaggio anti-sistema e un concetto superficiale di “rivoluzione permanente” si è articolata una curiosa scala di valori, talvolta ai limiti dell’improbabile, rendendo accettabili e riconosciute come tali solo limitate parti del presente e del passato. Lo stesso Eric Hobsbawm, la cui lettura del jazz è stata francamente sopravvalutata da chi cercava un definitivo sigillo e suggello “elevato” al jazz, lascia intravedere dei possibili dubbi sull’esclusività assegnata a un solo aspetto del linguaggio improvvisativo: “There is no special merit in improvisation. (…) For the listener it is musically irrelevant that what he hears is improvised or written down. If he did not know he could generally not tell the difference. (…) Improvisation, or at least a margin of it around even the most “written” jazz compositions, is rightly cherished, because it stands for the constant living re-creation of the music, the excitement and inspiration of the players which is communicated to us”. Ciononostante, Peterson è indiscutibilmente un improvvisatore, e del più alto livello, per quanto egli non sembri assegnare alcun ruolo a quella sorta di “spontaneità” e di “incidentalità” che nella composizione spontanea produce una sorta di aura, di “sensazione” (qualcuno forse la definirebbe “audio-tattile”) ignota alla pagina interamente e meticolosamente composta. A tal proposito, Hamilton cita un autore accademico ma di sensibilità tutta contemporanea come LaMonte Young: “There’s a very fine balance between structure, preparation and control, and letting  things come through. When I play  The Well-Tuned Piano, even though I’ve practised and have a great deal of information under my fingers and running through my  head . . . I totally open myself up to a higher source of inspiration and try to let it flow  through me. I play things that I could’ve never played, that I couldn’t imagine.” D’altronde, neanche l’interprete accademico riflette pedissequamente quanto annotato in partitura: come ben sappiamo, vi è una pressoché infinita gamma di nuance, di sottigliezze, di accenti, di reattività fra interprete e opera che rende ogni esecuzione un fatto del tutto a sé stante. Qualsiasi interpretazione musicale, che si esprima attraverso la rilettura di un testo scritto o attraverso la (ri)composizione istantanea, attua ed esprime -per quanto in modi e contesti che possono essere radicalmente diversi- imperfezioni (rispetto all’eventuale “perfezione” del testo scritto) nonché irripetibili e non-replicabili alterazioni. Per quanto certi improvvisatori tendano, perciò, a pre-delineare con estrema cura la struttura portante di un’improvvisazione, quel “leap into the unknown” di cui spesso argomentava Steve Lacy rimane l’unica possibile realtà con cui misurarsi. Ciò accade ugualmente nell’arte di Oscar Peterson, e in misura ben più cospicua di quanto sia stato descritto: la differenza, si potrebbe dire, sta nel trampolino scelto.

L’approccio di Peterson implica una meticolosa preparazione all’improvvisazione: molto è affidato al caso, altrettanto non lo è, e queste due realtà, invece di confliggere, vengono accuratamente elaborate in modo da coincidere. Ciononostante, Peterson raggiunge, tramite l’evidenza di una tecnica imponente (che pure mai difetta di swing), la stessa teatralità che Erroll Garner sapeva raggiungere per vie diametralmente opposte: il letterato e l’illetterato, il tecnico e il pre-tecnico, si prefiggono, per le vie della loro tradizione, lo stesso scopo, cioè una narrativa, uno storytelling. E in questo senso, Peterson è stato fra i più grandi narratori che il jazz abbia avuto: molto più Joseph Conrad (anche nella sua fondamentale estraneità al pragmatico empirismo dei “maverick” statunitensi) che Jack London, certamente. Proprio la meticolosa preparazione permetteva al pianista canadese di operare con una completa libertà, elaborando il materiale con una costante quanto pressoché ossessiva varietà. Norman McLaren, sofisticato regista d’animazione, ricordava a tal proposito un episodio illuminante nel corso di una sua collaborazione con Peterson: “…in the first run through I scarcely recognized what we had worked out because of the fact that he improvises all the time. Every time they rehearsed it, he improvised something new. And the new things get incorporated. And the whole shifts a little bit. Some of the new things he’d done were better than our original thing, but many of the things he had changed were not as good for me. We spent the first hour of the recording session trying to partly get it back to its original shape, while preserving the good, new things he had improvised” (Maynard Collins, Norman McClaren, Canadian Film Institute, Ottawa 1976, cit. in Lucille Yehan Mok, “Glenn Gould, Oscar Peterson, and New World Virtuosities”. Doctoral dissertation, Harvard University).

Le diverse versioni del trio di Oscar Peterson hanno creato, attraverso peculiari articolazioni dinamiche, articolato equilibrio fra tessiture, sofisticazione timbrica, ricchissima facondia interpretativa, un flusso narrativo fra i più significativi nella storia della musica improvvisata africana-americana derivante dallo stride e dal be bop. Alcune introduzioni pianistiche petersoniane a interpretazioni di standard rappresentano vertici dell’arte improvvisativa e ricompositiva, sia per rigorosa logica strutturale che per rigogliosa ricchezza melodica e unificante quanto complessa varietà ritmica (su quest’ultima caratteristica si potrebbero scrivere interi trattati): queste scarne righe introduttive non rendono certo giustizia alla maestosità di un talento che, per sua naturale esorbitanza, non poteva che rappresentare un esempio fino ad ora unico e forse irripetibile.
(Gianni Morelenbaum Gualberto)

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