Come forse avrete intuito, d’estate siamo ancora più lavativi del solito. Quindi per il mese di agosto aspettatevi solo qualche Picture This e poco altro, mentre le trasmissioni (ir)regolari verranno riprese a settembre. (Continua a leggere)
Questa è la versione originaria debitamente corretta e modificata del saggio pubblicato nell’ottobre 2015 su Musica Jazz e intitolato “Two For The Road“. Ho cercato di tener conto del feedback relativo alle opportune correzioni e modifiche al testo effettuate sulla bozza in sede di redazione dalla rivista, di cui ringrazio il direttore Luca Conti. (Continua a leggere)
In un periodo nel quale stenta a proporsi sulla scena contemporanea abbondanza di figure carismatiche, perlomeno se paragonata a quella dei jazzisti delle generazioni precedenti, ho scelto di riproporre questo disco omonimo di Michael Brecker, il suo primo da leader, inciso alla matura età di 38 anni, per omaggiare e non dimenticare un grande tenorsassofonista, scomparso peraltro prematuramente da soli otto anni, tra i più influenti e significativi del post-coltranismo. Eppure Brecker non ha mai goduto di buonissima stampa da parte della nostra critica specializzata, da sempre alla ricerca smaniosa del musicista innovatore sul piano formale e strutturale (per quel che mi riguarda il preambolo formale applicato come criterio generale di valutazione in ambito jazzistico, continuo a trovarlo discutibile, se non in diversi casi persino fuorviante) e poco attenta all’aspetto della forza espressiva, che è da sempre invece la peculiare caratteristica di quella musica improvvisata che da ormai oltre un secolo di nome fa “Jazz”. (Continua a leggere)
Noi facciamo bisboccia di quella pesante, sulla spiaggia privata della FFJ Mansion. Al punto che saremo presto ridotti da buttare via. Eh sì, inutile nasconderci dietro a un dito. Ma in fin dei conti non l’abbiamo mai fatto, ora che ci penso… dev’essere il quarto mojito a stomaco vuoto che inizia a fare effetto. Vabbeh, un po’ di Karl Denson a tutto volume e risiamo a posto (forse)! Buon ferragosto dalla redazione di FFJ!
Portare il cognome Marsalis presso una consistente fetta di critica nostrana è quasi un’implicita colpa e, ormai da decenni, sinonimo di “conservatorismo jazzistico” e di negazione della cosiddetta “creatività.” In sostanza non è biglietto da visita che aiuti a ricercare un approccio musicalmente attento e privo di pregiudizi all’atto dell’ascolto, come invece si dovrebbe sempre fare con chiunque. Conseguentemente, un disco di solo sassofono può destare l’interesse di certe orecchie, se confezionato da qualche improvvisatore radicale di una avanguardia che fu, ormai abbondantemente attempata, ridotta sempre più spesso ad esibirsi in una stanca collezione di sofisticate e “intelligenti” pernacchiette, inframezzate da fischi e stridor di denti, il tutto regolarmente scambiato per grande ed innovativa musica esclusiva, per soli veri intenditori chìc. (Continua a leggere)
Quella che vedete a sinistra è la copertina del numero di settembre di Musica Jazz. Mentre scrivo non è ancora uscito, ma immagino che lo farà a giorni. Non ricevo jpg dal futuro, ovviamente, mi sono limitato a prenderla dal profilo Facebook di JD Allen: il sassofonista di Detroit è ben contento di essere sulla copertina di una rivista assieme al collega James Brandon Lewis. La cosa mi fa un immenso piacere, perché finalmente trovo un giornale italiano che mette in copertina due musicisti di oggi immersi nel jazz contemporaneo che si evolve dalla sua matrice originaria americana e afro-americana. E’ chiedere troppo? No, in realtà no, ma visto che negli anni a nessuno in Italia sembra esser mai fregato un emerito di (citazioni a caso) Christian Scott, James Carter, Jason Moran, Eric Reed, Orrin Evans, Brian Blade, Mary Halvorson, Eric Revis, Rudresh Mahantappa e tutta una marea di altri, relegati sempre ai margini quando va bene, è un gran bel lusso. (Continua a leggere)
Melissa Aldana è una giovane sassofonista sudamericana di cui si è parlato assai bene, nel corso dell’ultimo anno. Contiamo prossimamente di recensire il suo disco con il Crash Trio, che potete nel frattempo gustare qui sotto in un concerto per la radio WGBO!
Dopo un album eclettico come ‘Moments’, uscito in sordina nel 2010, il giovane sassofonista James Brandon Lewis inaugura il suo contratto con la rinata Okeh (avete letto bene) con ‘Divine Travels’, un nuovo lp nel classico formato sax-basso-batteria. Gli esempi illustri in tal caso si sprecano, e certo confrontarsi coi nomi di Sonny Rollins, Joe Henderson, Branford Marsalis o Joe Lovano, per esempio, non è la cosa più facile del mondo. Tuttavia James può contare su una sezione ritmica strepitosa formata da due suoi mentori, ovvero William Parker (contrabbasso) e Gerald Cleaver (batteria); affermare che a questo punto il disco si fa da solo è ingeneroso e scorretto, ma allo stesso tempo la chimica speciale fra i tre si sente. (Continua a leggere)
Ve ne sarete accorti, ma ora è ufficiale: in questi giorni non abbiamo voglia di scrivere niente. E’ la settimana di ferragosto, del resto, e quindi preferiamo gli ozi della villeggiatura al dovere di informare il comunque pregevole nostro pubblico. Noi invitiamo Keith Jarrett nella FFJ Mansion per poi tirargli un gavettone all’ingresso mentre dentro stanno suonando i Nashville Pussy, ma pensiamo un minimo pure al vostro, di divertimento. O meglio, ci pensa Vicenza Today. Citiamo testualmente:
“Raphael Gualazzi è uno dei migliori artisti jazz italiani.“ (Continua)
AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!!!