FREE FALL JAZZ

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Quella che vedete a sinistra è la copertina del numero di settembre di Musica Jazz. Mentre scrivo non è ancora uscito, ma immagino che lo farà a giorni. Non ricevo jpg dal futuro, ovviamente, mi sono limitato a prenderla dal profilo Facebook di JD Allen: il sassofonista di Detroit è ben contento di essere sulla copertina di una rivista assieme al collega James Brandon Lewis. La cosa mi fa un immenso piacere, perché finalmente trovo un giornale italiano che mette in copertina due musicisti di oggi immersi nel jazz contemporaneo che si evolve dalla sua matrice originaria americana e afro-americana. E’ chiedere troppo? No, in realtà no, ma visto che negli anni a nessuno in Italia sembra esser mai fregato un emerito di (citazioni a caso) Christian Scott, James Carter, Jason Moran, Eric Reed, Orrin Evans, Brian Blade, Mary Halvorson, Eric Revis, Rudresh Mahantappa e tutta una marea di altri, relegati sempre ai margini quando va bene, è un gran bel lusso. (Continua a leggere)

L’opera del DJ Amir Abdullah è encomiabile: da vero appassionato si è assicurato i diritti sul catalogo della Strata Records, label di culto fondata negli anni ’70 a Detroit da Kenny Cox e durata solo una manciata dischi, riesumando il marchio e ristampandone il materiale. Materiale su cui peraltro si è fantasticato per anni: molti dischi pubblicizzati come “in uscita” sul retro di quelle copertine in realtà poi non hanno fatto in tempo ad arrivare nei negozi, e il bello è che Abdullah, grazie alla disponibilissima vedova di Cox, è in possesso anche dei master inediti, che pure saranno oggetto di riesumazione.

Primo tra di essi è ‘Mirror Mirror’ dell’altosassofonista Sam Sanders, uno che a livello locale era una piccola istituzione, con migliaia di concerti macinati sui palchi della “motor city”, esperienze al fianco di leggende come Sonny Stitt, Rashaan Roland Kirk e Milt Jackson, ma anche session man con Stevie Wonder. (Continua a leggere)

“Bags”, come sappiamo, è il nomignolo affibbiato a Jackson per via delle borse sotto gli occhi, una “bean bag” è una sacca riempita di fagioli secchi… chi sarà mai il “Bean” della situazione? Ma ovviamente Coleman Hawkins! Scemenze a parte, “Bean Bags” fa parte della lunga serie di album incisi da Milt Jackson su Atlantic. Accompagnati da una formazione deluxe (Tommy Flanagan al piano, Kenny Burrell alla chitarra, Eddie Jones al contrabbasso, Connie Kay alla batteria), Bean e Bags affrontano sei brani sovrapponendo due diverse generazioni di jazz. Hawkins e Jones infatti sono musicisti dell’era dello swing, mentre gli altri sono emersi negli anni del bebop: quello che ne esce fuori, se vogliamo, ricorda quel fertilissimo periodo di quindici anni prima in cui Coleman Hawkins stesso, alla guida di piccole formazioni composte da quei musicisti che di lì a poco avrebbero sconvolto le acque, innervava il classico di una tensione nuova. (Continua a leggere)

Della sacra trimurti dei sassofonisti pre-bop Ben Webster è stato forse quello meno “in vista” (gli altri due sono, ovviamente, Lester Young e Coleman Hawkins), cionondimeno il suo corposo tenore ha segnato in maniera indelebile il jazz della prima metà del ‘900, inizialmente nell’orchestra di Ellington (sodalizio che, leggenda vuole, finì quando il sassofonista rovinò un vestito del maestro Duke), poi con un pugno di (notevolissimi) dischi su Verve negli anni ’50, che si guadagnarono il plauso delle orecchie più attente. Inevitabile, come per molti colleghi della sua era, il calo di popolarità negli anni ’60: fu una delle ragioni che lo spinsero a stabilirsi in Europa (tra Amsterdam e Copenaghen), dove, riverito e rispettato, continuò a portare in giro per i locali i successi di sempre.

Quegli ultimi spiccioli di carriera sono stati documentati più volte, seppur in maniera frammentaria: qualche incisione buona, molte altre incomplete o amatoriali; qualcuna ristampata in tutte le salse, qualcun’altra persa nell’oblio. Ad aggiungere un tassello importante ci prova la Storyville, che restaura e propone su CD un concerto in terra norvegese (a Trondheim) risalente al 1970, in cui quel sax dall’inconfondibile tono “soffiato” si fa accompagnare da un trio di musicisti locali (piano/basso/batteria). Anche in questo caso la sorgente è un nastro amatoriale, seppur di qualità più che discreta: a uscirne penalizzato è giusto il pianoforte di Tore Sandnaes, “sepolto” dagli altri strumenti, che sembra comunque un buon epigono di Oscar Peterson (il quale proprio con Webster aveva fatto cose egregie). (Continua a leggere)

Foto di DMV Comunicazione/Titti Fabozzi

Avevo pensato di aprire queste righe con un’introduzione tipo “Sabato sera ho visto il jazz. Il suo nome è Benny Golson”: pomposa quanto volete, ma, vi giuro, neanche troppo lontana dalla realtà. Di concerti (non solo jazz) ne ho visti tanti, ma davvero pochi sono quelli in cui lo spettacolo sul palco è capace di coinvolgere per tutto il tempo senza punti morti e, soprattutto, di lasciarti sulle labbra un sorriso a 32 denti, misto di divertimento e soddisfazione. Benny Golson ci è riuscito. E ci è riuscito perché sul palco il primo a divertirsi, forse anche più di noi, è lui stesso. Quelle assi le calca con l’entusiasmo del primo giorno: lo scruti un paio di minuti ed è chiarissimo che a lui piace stare lì e non desidera altro. (Continua a leggere)

Fra un related e l’altro è saltato fuori questo magnifico concerto di Ben Webster, assieme al trio di Oscar Peterson. Dal momento che, negli ultimi anni della sua vita, Big Ben viveva ad Amsterdam, è lecito immaginare che l’esibizione sia stata filmata da una tv olandese. Pronti? Via!

 Parte 1:

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Il jazz non è estraneo al mondo dei Simpsons. La piccola Lisa suona il sassofono, e poi come dimenticare il personaggio di Gengive Sanguinanti Murphy, il sassofonista alcolizzato e girovago di Springfield? La sua figura ricalca parecchi (se non tutti) gli stereotipi bohemienne sul jazz, ma se proprio dovessimo indicare una figura di riferimento, difficile non pensare a Sonny Rollins solo soletto sul ponte di Williamsburg. L’incontro di Sonny e Lisa, adesso, è davvero vicino. Nell’episodio ‘Whiskey Business’, in onda il 5 maggio su FOX, Sonny appare come ologramma a Lisa che vuole opporsi allo sfruttamento olografico, stile Tupac Shakur al festival di Coachella, del suo idolo Gengive Sanguinanti. Fremiamo di attesa!

Tia Fuller ci piace ed è un’idola (o idolessa) personale. Già abbiamo parlato strabene di due album, ma ci erano sempre mancati dei video. Fra i tanti disponibili in rete, colpisce questo, registrato dal pubblico a New York due anni fa con suggestive luci azzurre e ottima qualità sonora. E, ovviamente, musica strepitosa ad alta energia, perfetta per rallegrare un 25 Aprile solitamente funestato da lugubri cantautori.


Un paio di giorni fa su AllAboutJazz è stata pubblicata un’intervista rilasciata da Branford Marsalis mentre veniva seguito nel corso di una partita di golf, sport del quale è notoriamente appassionato. Tra i vari argomenti affrontati, è tornata in ballo una vecchia “diatriba” per la quale fischieranno le orecchie al solito Renzo Arbore: jazz europeo vs. jazz americano. Il sassofonista racconta di una volta in cui gli venne chiesta la sua opinione sul jazz del vecchio continente, argomento verso il quale, spiega, aveva un’opinione complessa e articolata, ma è andata a finire che i giornalisti, forse in un raptus di “lesa maestà”, hanno sottolineato più che altro come questi si fosse agitato nel rispondere.

“Non è vero – spiega con la sua consueta verve – Posso agitarmi quando parlo, ma è come quando mi entusiasmo. Adesso quando me lo chiedono rispondo semplicemente ‘È roba buona!’ (‘That shit’s great, nda.). Finchè non suono come loro, è roba eccellente. È così che la penso riguardo buona parte di quelle cose lì. Se la gente pensa sia buona… Non ci sono statistiche di dischi o biglietti venduti a provare che pensino lo sia, ma se la ritengono roba buona bella per loro!”.

L’intervista integrale è leggibile qui.