Il contraltista William “Sonny” Criss è uno dei tanti esempi di sottostima, financo di ingiusto oblio, di cui è zeppo il racconto della storia del jazz. Le ragioni nel suo caso sono diverse e sovrapponibili. Tra quelle citabili, una, abbastanza comune ad altri, è legata alla modalità con la quale si racconta solitamente la storia di questa affascinante, e per certi versi ancora misteriosa, musica, ossia una sorta di epica intensa, fatta da una rapida sequenza cronologica di singoli geni, protagonisti di svolte o sedicenti “rivoluzioni” epocali, piuttosto che da una articolata sovrapposizione di interscambi e contributi, chi maggiori chi minori, che si sono intrecciati tra loro (non si dimentichi la tradizione fondamentalmente orale della cultura africana- americana), componendo come un puzzle il quadro generale. Un’altra motivazione può essere legata alla presenza o meno del musicista nei luoghi, nei momenti, o nelle occasioni, “giuste”, durante il percorso evolutivo della suddetta storia. A seconda del momento storico, infatti, il “focus” jazzistico si è spostato da un luogo all’altro degli Stati Uniti: New Orleans, Chicago, New York, Kansas City, Los Angeles, sono state, in diversi momenti, i luoghi strategici di formazione ed evoluzione del linguaggio e i centri preferenziali di incontro e interscambio tra i musicisti. Infine esistono elementi personali limitanti, legati alla singola biografia del musicista di volta in volta preso in esame. Criss probabilmente racchiude in sé un po’ tutte le circostanze citate, in termini ovviamente più sfortunati.
Nato a Memphis nel 1927 e trasferitosi poi a Los Angeles nel ‘42, Criss ha viaggiato molto nella sua vita, anche oltre i confini nordamericani, venendo in Europa (frequentando Francia, Belgio, Svizzera e Germania) con ritorno poi sempre a L.A., ma sostanzialmente stazionando in un luogo musicalmente marginale, cioè lontano dal centro degli eventi musicali della nazione, perlomeno nel periodo della sua attività artistica e professionale, cioè New York, che peraltro ancora oggi mantiene tale ruolo. Ciò gli ha impedito di avere una adeguata esposizione e di gestire una attività concertistica e discografica continua (ha inciso relativamente poco). Non a caso questo disco, che qui recensisco, è il primo di una splendida serie registrata nella seconda parte degli anni ’60 per la Prestige che lo ha finalmente “costretto” a trasferirsi ogni tanto a New York, permettendogli di ottenere una riscoperta, un minimo di attenzione critica e un rilancio professionale dopo diversi decenni dai suoi esordi e riscontri sulla scena californiana. Criss fa infatti parte di quel gruppo di musicisti neri che, sotto gli insegnamenti di diversi validissimi insegnanti di colore, come Sam Browne (il direttore del dipartimento musicale della Jefferson High School e didatta all’University of Southern California), hanno dato un contributo interessante e ancora un po’ trascurato, alla musica della West Coast negli anni del suo successo, ossia tra fine anni ’40 e metà anni ’50, in particolare a Central Avenue, una sorta di cinquantaduesima strada di L.A. Intendiamo, tra gli altri, Chico Hamilton, Horace Tapscott, Frank Morgan e Dexter Gordon, senza dimenticare i contributi di Hampton Hawes, Buddy Collette, Wardell Gray, Teddy Edwards e più in là di Eric Dolphy.
Criss, assieme a molti dei musicisti citati, rientra in quella schiera di musicisti che hanno dato una loro interpretazione, in questo caso californiana, del nuovo linguaggio boppistico esportato da Parker e Gillespie, venuti appositamente in tour di otto settimane in California a fine 1945 per un ingaggio al Billy Berg’s, con il seguente stazionamento di Parker per 16 mesi in quell’area della costa del Pacifico. In realtà Sonny aveva già avuto modo di sentire anni prima, tramite la madre, i dischi dell’orchestra di Jay Mc Shann con Parker in formazione.
Sul piano linguistico e strumentale egli è dunque considerabile ovviamente, e direi persino inevitabilmente, debitore di Parker, ma non un clone, come ho letto da alcune parti, insieme ad altri validissimi contraltisti del periodo (Sonny Stitt su tutti), in modo abbastanza impreciso e superficiale.
In realtà Criss ha certo assorbito il fraseggio parkeriano, ma nel suono è una sorta di Benny Carter (o più precisamente occorrerebbe forse citare Willie Smith, il contraltista dell’orchestra di Jimmie Lunceford) più potente ed espressivo e molto più ricco di inflessioni blues rispetto sia a quello di Carter che a quello di Parker. Un senso del blues profondo, antecedente all’uso che ne fa Parker, cioè molto radicato e viscerale, “terreno”, di cui è pregno ogni suo assolo. Quel tipo di blues che è stata la base di tutti quei sassofonisti, contraltisti o tenoristi che dir si voglia, e che ha dato la stura a quella ampia serie di “blowers” più “funky” protagonista negli anni successivi. Partendo da Earl Bostic e i sassofonisti R&B e passando dagli “honkers”, si arriva a quelli del Soul, come King Curtis, sino a Hank Crawford o a Stanley Turrentine, la cui tradizione complessiva viene oggi ripresa ampiamente sulla scena sassofonistica contemporanea afro-americana (si pensi anche solo ad un James Carter o persino ad un eclettico Joshua Redman, ma moltissime sono le nuove leve che oggi recuperano quei modelli espressivi, affrancandosi sempre più dagli effetti del post coltranismo che per decenni ha dominato).
This is Criss è stato voluto dall’ appassionato produttore Don Schlitten (quello della Xanadu anni ’70) e registrato nell’Ottobre del 1966 con una sezione ritmica di lusso e di lui assolutamente degna, composta da Walter Davis al piano, che contribuisce con Greasy, (pezzo già suonato in precedenza da Jackie Mc Lean), Paul Chambers al basso e Alan Dawson alla batteria. E’ un disco breve, come usuale per la Prestige dei tempi, ma compatto e tremendamente significativo. Criss suona magnificamente e con grande ispirazione.
La selezione dei brani è calibrata e costituita sostanzialmente da blues e standards, questi ultimi scelti in modo tale da esaltare il forte umore blues caratteristico della sua gamma espressiva. Ne sono prova chiara l’iniziale Black Coffe, When Sunny Gets Blue e Love for Sale, ma il bello dei solisti come Criss è quello di riuscire a mettere una chiave blues anche in brani di tutt’altro spirito come Days of Wine and Roses di Henri Mancini o l’immortale Skylark.
Un disco che se fosse prodotto oggi farebbe probabilmente il botto, invece stiamo parlando di un grande jazzista misconosciuto, del quale in letteratura a stento si trova qualche breve citazione. Si vede che è più importante esaltare certe sovraesposte mezze figure di oggi che ristabilire un minimo di verità storica in fatto di valori musicali ed artistici, ma tant’è.
(Riccardo Facchi)