FREE FALL JAZZ

Jimmy Giuffre's Articles

Questo articolo è stato pubblicato su Musica Jazz di Luglio dello scorso anno e qui lo ripresentiamo nella sua forma originale (peraltro bozza pressoché integralmente pubblicata dopo piccole necessarie correzioni di cui ho tenuto conto). Come per le altre occasioni  ho aggiunto i link dei brani citati a supporto della lettura, cosa che ovviamente su cartaceo non è possibile fare.

Ringrazio il direttore della rivista Luca Conti per la gentile concessione.

Riccardo Facchi

Ci sono vocaboli nella narrazione del jazz che sono a dir poco abusati, veri e propri stereotipi utilizzati in modo eccessivo e talvolta improprio. Uno dei più battuti è certamente il termine “rivoluzione” e sarebbe difficile rintracciare chi non abbia visto un qualsiasi scritto che parli del tema Free Jazz senza vedere dopo poche righe quel termine, peraltro stimolato e in parte giustificato dalla forte connotazione socio-politica di cui si è tinto negli anni ’60, legata alla cosiddetta “protesta nera”. Qualcosa di analogo successe peraltro già nel dopoguerra col be-bop (per certi versi fase musicalmente ancor più “rivoluzionaria”), quasi che si trattasse di eventi in musica improvvisi e traumatici capitati tra capo e collo, disegnando scenari di rottura netta col passato e relativa tradizione, invecchiando così istantaneamente qualsiasi cosa prodotta in precedenza. (Continua a leggere)

Marc Rossi oggi insegna al Berklee. I più attenti forse lo conosceranno per le sue incisioni da leader col Marc Rossi Group o per i sei anni di militanza come pianista della Living Time Orchestra di George Russell verso la fine degli ’80. Non molti sanno però che sulle spalle ha un peccato bello grosso da farsi perdonare. Nei primi anni ’80, durante i suoi studi al conservatorio del New England, fu infatti lui a passare una cassetta dei Weather Report a uno dei suoi insegnanti: Jimmy Giuffre.

Giuffre, dopo il fallimento commerciale del fenomenale trio con Steve Swallow e Paul Bley, aveva mantenuto un profilo piuttosto basso nei ’60 e nei ’70, pubblicando una manciata di dischi, ma dedicandosi soprattutto all’attività di insegnamento. Galeotta fu quella cassetta dei Weather Report: l’autore di ‘Free Fall’ si sentì stimolato al punto da mettere insieme un gruppo per elaborare la sua visione di quella musica. In particolare, ad attirare la sua attenzione era il ruolo del basso elettrico (in sostituzione del “vecchio” contrabbasso), presto affidato al giovane Bob Nieske, anch’egli studente del New England Conservatory; lo stesso Rossi si occupava inizialmente di piano e tastiere prima di essere sostituito da Pete Levin, con il percussionista Randy Kaye a completare il quadrilatero. Il sodalizio fruttò tre dischi per l’italiana Soul Note, attentissima nonostante il nome di Giuffre in quegli anni fosse tutt’altro che “di tendenza”. (Continua a leggere)

Della storica calata italiana di Jimmy Giuffre datata 1959 vi avevamo già accennato in precedenza. Il fatto clamoroso è che quella sera di Giugno (il 19, per la precisione) al Teatro Adriano di Roma operava anche un’avanguardistica (per i tempi, chiaro) troupe televisiva, intenta ad immortalare l’evento per i posteri. Le telecamere con ogni probabilità erano quelle della RAI, sia perchè ricordo porzioni del concerto trasmesse nel vecchio contenitore di Raitre “Schegge”, sia perchè suppongo nessuno a parte la TV di stato fosse in grado di riprendere professionalmente uno show dal vivo a quei tempi. Tolto Giuffre (sax e clarinetto), il trio era completato dal chitarrista Jim Hall e dal bassista Buddy Clark: abbiamo scelto di proporvi la loro versione (registrata ovviamente quella sera) di ‘Four Brothers’, standard composto proprio da Giuffre durante il suo periodo da arrangiatore nella big band di Woody Herman. Otto minuti di storia.

 

L’errore più comune, che porta alla puntuale e criminosa sottovalutazione di Jimmy Giuffre, è considerarlo solo come uno tra i tanti sassofonisti dell’ondata west coast degli anni ’50. Per carità, le sue radici sono esattamente quelle: come Stan Getz si è fatto le ossa nella big band di Woody Herman (della cui sezione fiati era arrangiatore), a lungo ha fatto anche da sideman a Shorty Rogers, ma è sufficiente un ascolto più attento per convincersi che un’eventuale reputazione da Gerry Mulligan di serie B sarebbe quantomeno ingrata. Già nei suoi dischi degli anni ’50 Giuffre si mostrava insofferente al giogo della west coast e del cool jazz, declinazioni che provava a ravvivare giocando da una parte con sonorità folk e blues e dall’altra con la sua passione per la classica, Debussy in particolare (dalla cui ‘Sonata per flauto, viola e arpa’ si dichiarava ispirato in occasione di ‘The Jimmy Giuffre 3’, esordio del 1956). Molteplici erano i suoi tentativi di oltrepassare gli steccati: si pensi alla partecipazione, nel 1954, al pionieristico ‘The Three & The Two’ di Shelly Manne (sperimentazione proto-free a lungo incompresa) o ancora all’atipico trio col chitarrista Jim Hall e il trombonista Bob Brookmeyer, che rinnegava strumenti ritenuti imprescindibili come batteria, piano e contrabasso (trio che in versione leggermente più “canonica”, col contrabbassista Buddy Clark al posto di Brookmeyer, fu protagonista addirittura di una calata dalle nostre parti, al teatro Adriano di Roma, nel 1959). (Continua a leggere)

L’idea originale era piuttosto semplice: uno spazio per consigliare vecchi dischi passati per un motivo o per l’altro sotto silenzio. Da lì poi ci siamo lasciati prendere la mano: perché limitarci solo al, pur ottimo, vecchiume? E allora via i paletti ed ecco Free Fall.

“Free” perché tendiamo a non essere incravattati, ingessati e/o pretenziosi, ma anche perché scriviamo più o meno quel che ci pare quando ci pare (purché abbia una minima attinenza con jazz e dintorni), senza essere costretti a stare necessariamente sul pezzo.

“Fall” perché così il titolo è direttamente ispirato a un album che da queste parti apprezziamo particolarmente.

E poi Jimmy Giuffre era tanto amato anche da quest’uomo qui, che proprio a lui s’ispirò per scegliersi il nome di battaglia: un motivo in più.

Perché il jazz non inizia con ‘Kind Of Blue’ e non finisce con ‘A Love Supreme’.