FREE FALL JAZZ

L’errore più comune, che porta alla puntuale e criminosa sottovalutazione di Jimmy Giuffre, è considerarlo solo come uno tra i tanti sassofonisti dell’ondata west coast degli anni ’50. Per carità, le sue radici sono esattamente quelle: come Stan Getz si è fatto le ossa nella big band di Woody Herman (della cui sezione fiati era arrangiatore), a lungo ha fatto anche da sideman a Shorty Rogers, ma è sufficiente un ascolto più attento per convincersi che un’eventuale reputazione da Gerry Mulligan di serie B sarebbe quantomeno ingrata. Già nei suoi dischi degli anni ’50 Giuffre si mostrava insofferente al giogo della west coast e del cool jazz, declinazioni che provava a ravvivare giocando da una parte con sonorità folk e blues e dall’altra con la sua passione per la classica, Debussy in particolare (dalla cui ‘Sonata per flauto, viola e arpa’ si dichiarava ispirato in occasione di ‘The Jimmy Giuffre 3’, esordio del 1956). Molteplici erano i suoi tentativi di oltrepassare gli steccati: si pensi alla partecipazione, nel 1954, al pionieristico ‘The Three & The Two’ di Shelly Manne (sperimentazione proto-free a lungo incompresa) o ancora all’atipico trio col chitarrista Jim Hall e il trombonista Bob Brookmeyer, che rinnegava strumenti ritenuti imprescindibili come batteria, piano e contrabasso (trio che in versione leggermente più “canonica”, col contrabbassista Buddy Clark al posto di Brookmeyer, fu protagonista addirittura di una calata dalle nostre parti, al teatro Adriano di Roma, nel 1959).

La svolta definitiva arriva all’inizio degli anni ’60: il clarinetto preferito ormai quasi definitivamente al sax, un nuovo trio (con Paul Bley al piano e Steve Swallow al contrabbasso) e, soprattutto, la voglia di sviluppare e portare su un nuovo livello di complessità le innovazioni accennate nel decennio precedente. Dopo un paio di prove ottime ma che ancora non rompono completamente con la tradizione (‘Fusion’ e ‘Thesis’), nel 1962 il sodalizio tocca il proprio punto più alto con ‘Free Fall’, programma che stupisce innanzitutto concettualmente, con i suoi inaspettati riferimenti alla mitologia nordica (con tanto di dedica a ‘Yggdrasil’ più di trent’anni prima degli Enslaved). “L’antica mitologia nordica sembra quanto più lontano possibile da un album di nuova musica – ammetteva Giuffre tra le note di copertina – ma sia nell’una che nell’altra vi è un riconoscimento della forza dell’ignoto, una voglia di raggiungere l’origine delle cose. Questo mondo eterno e senza tempo sembra riflettere alcune delle sensazioni provate durante la composizione e la registrazione di quest’album”. Non aveva del tutto torto, a ben vedere: “nuovo” e “ignoto” sono termini che sposerebbero bene le note incise nei solchi di ‘Free Fall’. Solchi in cui jazz e musica da camera vanno a braccetto, in cui il ritmo non è più esplicito ma viene espresso sottotraccia dal magistrale lavoro di Swallow, non solo spina dorsale, anche melodico nonché fondamentale “direttore d’orchestra”, ma soprattutto solchi che alternano momenti studiati sin troppo minuziosamente ad altri in cui trionfa l’improvvisazione libera (e fondamentale in questo senso è anche l’influenza del coevo Ornette Coleman). “Durante le prove abbiamo passato tanto tempo a parlare quanto a suonare – ricorda Steve Swallow – Ci ponevamo tante domande: come possiamo suonare a una determinata velocità, ma senza un tempo prefissato? Per quanto tempo è possibile improvvisare senza far riferimento a una tonica? Qual è la melodia che riusciamo a suonare più a lungo ininterrottamente?” 

Riascoltato a mezzo secolo di distanza, ‘Free Fall’, pur senza perdere un grammo del suo fascino, suona certamente meno ostico di altre sperimentazioni “avanguardistiche” che l’hanno seguito (da Ayler a Sanders, la lista la conoscete), ma contestualizzato in quel 1962 il suo contributo allo sviluppo del free jazz resta di grossa portata. Peccato se ne accorse giusto qualche platea europea (che ben accolse il trio quando passò rapidamente in tournée): in patria (la loro, che poi sarebbe anche quella del jazz, ricordiamo) non se li filò praticamente nessuno, tanto che si ritrovarono a sbarcare il lunario riciclandosi come house band di una caffetteria di New York, pagati in base all’incasso delle serate. Una notte, dopo aver guadagnato la bellezza di 35 centesimi a testa, decisero che forse era il caso di andare ognuno per la propria strada. Mai titolo di un disco fu altrettanto profetico. (Nico Toscani)

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