FREE FALL JAZZ

Steve Swallow's Articles

Ci sono radici musicali che sanno “parlare” americano come poche altre e che probabilmente solo i musicisti americani sanno affrontare con adeguata idiomaticità e consapevolezza culturale. Ciò in barba a certe diffuse tesi critiche odierne che fanno della supposta universalità del linguaggio musicale improvvisato una delle loro basi. Ossia, si lascerebbe intendere che qualunque musicista sparso per il mondo possa approcciare certo peculiare materiale musicale con la medesima abilità e proprietà linguistica di chi può frequentarlo alla fonte, per identità culturale e condivisione geografica. Eppure si potrebbe invitare chiunque all’ascolto di un gospel o un blues, solo ad esempio, per cogliere le notevoli differenze tra quelli interpretati da un europeo piuttosto che da un afro-americano. (Continua a leggere)

Tornare a Saalfelden dopo quasi 30 anni, dove al posto del tendone poggiato su un prato, memore di antiche edizioni di Umbria Jazz “free”, trovi una sala congressi con annessa sala VIP e un locale adatto ad ascoltare musica, beh, non poteva che far piacere. Certo, nonostante l’ottima organizzazione di uno staff giovane e sempre interessato alle nuove proposte della scena, soprattutto nuovaiorchese, qualche problema resta sempre da risolvere, come la disponibilità delle sedie nella CongressHalle, ma alla fine risultano intoppi marginali.

La musica dunque. Si parte giovedì 23: lasciando perdere le proposte del Citystage, un tendone (ah, eccolo!) nella piazza principale, sia per la mancanza di interesse verso le stesse sia per mancanza di tempo, si parte dal Nexus, dove si presentano gli Shortcuts. Il Nexus è un piccolo teatro con balconata, annesso ad un delizioso e funzionale bar-ristorante molto accogliente, da qui parte il vero Jazz Festival giunto ormai alla sua 33° edizione. La proposta di apertura, coraggiosa, è il quartetto di Christian Muthspiel con guest Steve Swallow. L’idea di coniugare la musica del rinascimento con il jazz non è proprio nuova, anche se sviluppata per portare una improvvisazione dai colori free. Un progetto che, nonostante la presenza di Swallow e soprattutto di Tortillier al vibrafono, resta piuttosto freddo e distaccato dalla comunicazione con il pubblico. La seconda proposta, gli Steamboat Switzerland, è stata devastante dal punto di vista della potenza di suono: un organo, un basso elettrico e una batteria; per quelli che come me erano in prima fila, un impatto devastante. Qui il jazz e l’improvvisazione non c’entrano niente: un trio che si rifà a tanto rock progressivo anni ’70 senza sviluppare assolutamente niente, tutta la musica era scritta, il che fa pensare… Notevoli i pantaloni a zampa d’elefante del tastierista, che mi hanno fatto ricordare il gruppo glam rock degli Slade! (Continua a leggere)

Marc Rossi oggi insegna al Berklee. I più attenti forse lo conosceranno per le sue incisioni da leader col Marc Rossi Group o per i sei anni di militanza come pianista della Living Time Orchestra di George Russell verso la fine degli ’80. Non molti sanno però che sulle spalle ha un peccato bello grosso da farsi perdonare. Nei primi anni ’80, durante i suoi studi al conservatorio del New England, fu infatti lui a passare una cassetta dei Weather Report a uno dei suoi insegnanti: Jimmy Giuffre.

Giuffre, dopo il fallimento commerciale del fenomenale trio con Steve Swallow e Paul Bley, aveva mantenuto un profilo piuttosto basso nei ’60 e nei ’70, pubblicando una manciata di dischi, ma dedicandosi soprattutto all’attività di insegnamento. Galeotta fu quella cassetta dei Weather Report: l’autore di ‘Free Fall’ si sentì stimolato al punto da mettere insieme un gruppo per elaborare la sua visione di quella musica. In particolare, ad attirare la sua attenzione era il ruolo del basso elettrico (in sostituzione del “vecchio” contrabbasso), presto affidato al giovane Bob Nieske, anch’egli studente del New England Conservatory; lo stesso Rossi si occupava inizialmente di piano e tastiere prima di essere sostituito da Pete Levin, con il percussionista Randy Kaye a completare il quadrilatero. Il sodalizio fruttò tre dischi per l’italiana Soul Note, attentissima nonostante il nome di Giuffre in quegli anni fosse tutt’altro che “di tendenza”. (Continua a leggere)

L’errore più comune, che porta alla puntuale e criminosa sottovalutazione di Jimmy Giuffre, è considerarlo solo come uno tra i tanti sassofonisti dell’ondata west coast degli anni ’50. Per carità, le sue radici sono esattamente quelle: come Stan Getz si è fatto le ossa nella big band di Woody Herman (della cui sezione fiati era arrangiatore), a lungo ha fatto anche da sideman a Shorty Rogers, ma è sufficiente un ascolto più attento per convincersi che un’eventuale reputazione da Gerry Mulligan di serie B sarebbe quantomeno ingrata. Già nei suoi dischi degli anni ’50 Giuffre si mostrava insofferente al giogo della west coast e del cool jazz, declinazioni che provava a ravvivare giocando da una parte con sonorità folk e blues e dall’altra con la sua passione per la classica, Debussy in particolare (dalla cui ‘Sonata per flauto, viola e arpa’ si dichiarava ispirato in occasione di ‘The Jimmy Giuffre 3’, esordio del 1956). Molteplici erano i suoi tentativi di oltrepassare gli steccati: si pensi alla partecipazione, nel 1954, al pionieristico ‘The Three & The Two’ di Shelly Manne (sperimentazione proto-free a lungo incompresa) o ancora all’atipico trio col chitarrista Jim Hall e il trombonista Bob Brookmeyer, che rinnegava strumenti ritenuti imprescindibili come batteria, piano e contrabasso (trio che in versione leggermente più “canonica”, col contrabbassista Buddy Clark al posto di Brookmeyer, fu protagonista addirittura di una calata dalle nostre parti, al teatro Adriano di Roma, nel 1959). (Continua a leggere)