FREE FALL JAZZ

Oh Canada's Articles

I più attenti ricorderanno che William Parker, assieme ad altri ospiti, ha già suonato con gli Udu Calls (alias il fiatista Daniele Cavallanti e il batterista Tiziano Tononi) in occasione di ‘Spirits Up Above’ del 2006. ‘The Vancouver Tapes’, che vede coinvolti solo i due musicisti nostrani e il bassista della Grande Mela, non rappresenta però il passo successivo a quella collaborazione, bensì una sorta di prequel. Le registrazioni risalgono infatti al Vancouver Jazz Festival del 1999, frutto di un DAT inaspettatamente ritrovato da Tononi. La qualità audio è, prevedibilmente, abbastanza cruda (ma comunque più che sufficiente), fattore che se da una parte potrebbe scoraggiare certi puristi del suono, dall’altra riesce a rendere bene l’idea dell’impatto e della “ruvidità” che il trio ha sprigionato sul palco quel giorno di Giugno di ormai quasi sedici anni fa. (Continua a leggere)

Il pubblico. Passano gli anni e a volte dei concerti li ricordi più per quello che accade sotto il palco anziché sopra. Ieri sera i segnali puntavano in quella direzione fin dall’inizio, quando tra la folla si sono fatti strada i volti di numerosi cultori del bel suono di mia conoscenza, raduno di riccardoni impenitenti che al termine dei numeri più funambolici degli strumentisti si lanciavano in cori “GI-NO! GI-NO!” modello quei ragazzi della curva B. (Continua a leggere)

Di Janice Finlay, sassofonista di Winnipeg, Canada, ho apprezzato molto l’esordio, quello ‘She’s Hip’ che divertiva sin dal titolo: tutt’altro che “di tendenza”, conteneva infatti dell’ottimo bop che sembrava letteralmente schizzato fuori da un’altra epoca. Ma quella è storia di quasi dieci anni fa: nel frattempo la sua ancia ha fatto capolino su diversi palchi anche fuori dall’ambiente jazz seguendo un’agenda fitta di impegni, esperienze che in un modo o nell’altro si riflettono in questo ritorno a ben due lustri dal debutto.

A dire il vero ‘The Houston Shuffle’, travolgente post bop con cui il quintetto apre le danze, lascia intendere che il discorso riprenda esattamente dove si era fermato con l’album precedente, ma andando avanti diventa chiaro il tentativo di alzare l’asticella. I risultati sono alterni: se molto buone sono le sfumature esotiche della title-track, guidata da un vivace flauto suonato dalla stessa Janice, per il resto ci si perde tra qualche ballad che lascia il tempo che trova (fa eccezione una buona rilettura di ‘Bye Bye Blackbird’, unico non originale in programma) e momenti in cui il sax non graffia e viaggia col freno a mano un po’ tirato (Continua a leggere)

Dopo la decade degli ’80 vissuta da Metal Queen, la popolarità della canadese Lee Aaron è colata a picco al volgere del nuovo decennio, e con lei quella di molte altre stelle del rock duro, ormai rimpiazzate da Seattle e dintorni. Sarebbe più che lecito chiedersi perché parliamo di tutto ciò in questa sede, e infatti sono ben pochi a conoscere il seguito della storia: dopo aver fondato i 2Precious, con i quali prova (senza successo) a cavalcare l’onda di popolarità del rock alternativo con un disco scialbetto (poi ristampato a suo nome), agli albori del nuovo millennio la nostra cambia di nuovo pelle, proponendosi, ebbene sì, in un contesto jazz. Facile che i maligni pensino all’ennesimo tentativo di risollevare una carriera ormai ristagnante (e in parte è senz’altro così), ma la svolta stupisce solo fino a un certo punto: i più attenti ricorderanno certamente come la Aaron, anche nei giorni a base di metallo e cotonature, non abbia mai fatto mistero di essere cresciuta ascoltando e cercando di emulare le grandi voci del jazz, una passione a quanto pare mai sopita. (Continua a leggere)