Il pubblico. Passano gli anni e a volte dei concerti li ricordi più per quello che accade sotto il palco anziché sopra. Ieri sera i segnali puntavano in quella direzione fin dall’inizio, quando tra la folla si sono fatti strada i volti di numerosi cultori del bel suono di mia conoscenza, raduno di riccardoni impenitenti che al termine dei numeri più funambolici degli strumentisti si lanciavano in cori “GI-NO! GI-NO!” modello quei ragazzi della curva B. Il punto è che Gino Vannelli stesso deve aver capito che ormai la fetta principale del suo pubblico è quella lì e dunque calca la mano per “non deluderli”: che sia la marea di sbrodolii strumentali con cui conclude ‘Brother To Brother’ o le zuccherose e manieristiche ballate buone per la commozione delle nonne (la terrificante ‘Canto’, tributo alle sue origini tricolore) non fa differenza. Però non basta attorniarsi di musicisti tecnicamente ineccepibili e inserire una sezione fiati (sax, tromba e trombone) per “diventare jazz”: la musica resta pur sempre una miscela easy listening di pop, rock e funky, gradevolissima nei momenti in cui il canadese si svincola da tutta la “sovrastruttura” (del “ben suonato” o del cantante dei buoni sentimenti alla Michael Bolton) e il punto della questione diventano le canzoni. È lì che le cose iniziano a funzionare: innanzitutto perché l’intrattenimento si fa meno pretenzioso, poi perché un po’ la classe, un po’ l’esperienza ormai quarantennale, un po’ la forma ancora smagliante gli permettono di tenere il palco in maniera coinvolgente e convincente. Ed io per un concerto di Gino Vannelli tutto così sarei lieto di pagare anche il biglietto (parentesi: nonostante tutto, ben vengano serate gratuite come queste della rassegna Giugno In Jazz). Il resto lo lascio volentieri ai devoti al culto del grande Riccardo. (Nico Toscani)