FREE FALL JAZZ

R-5293534-1399546073-5002.jpegTreasure Island, del febbraio del 1974, è stato il secondo album registrato per la Impulse! dal cosiddetto “Quartetto Americano” di Keith Jarrett, che è stata una delle formazioni chiave per comprendere certi processi di fusione linguistica tra diversi generi (oggi si direbbe con termine persino abusato “contaminativi”) emersi in quei variegati e altamente creativi anni ’70. La band composta da Jarrett al pianoforte e sax soprano, Dewey Redman al sax tenore, e i fidi Charlie Haden al basso e Paul Motian alla batteria, è stata forse la migliore che Jarrett abbia mai guidato in carriera. Oltre al quartetto, l’allora promettente chitarrista Sam Brown qui contribuisce significativamente in un paio di brani, così come Guilherme Franco e Danny Johnson si aggiungono alle percussioni. È un disco che all’epoca fu considerato dalla nostra critica, nella migliore delle ipotesi, “gradevole”, nella peggiore, liquidato come “commerciale” (tanto per cambiare e visto il buon successo discografico che riscosse), termine con il quale si derubricava qualsiasi cosa interagisse con musiche di stampo popolare e non potesse essere classificata nei dintorni di un cosiddetto “jazz d’avanguardia” e conseguentemente “creativo”. Con l’orecchio di oggi e alla luce dei suddetti diffusissimi odierni processi “contaminativi”, possiamo invece ben comprendere come quel quartetto e questa musica fossero davvero creativi e con una buona dose di pionierismo, anche se in tutt’altri ambiti e scopi musicali.

L’album, apparentemente caratterizzato da un eclettismo stilistico che potrebbe far pensare ad una mancanza di rigore o una scarsa chiarezza nella direzione musicale da intraprendere, era invece da considerare la continuazione di alcune delle idee (in chiave più popolare) che già erano emerse in un disco ancor più vario ed eclettico del pianista di Allentown quale era stato Expectations. Il fatto è che all’epoca la critica non aveva ancora ben compreso in quali molteplici mondi musicali Jarrett volesse agire, con il jazz considerato (da lui) solo una parte, forse nemmeno maggioritaria, della sua estetica. In questo senso è fondamentale richiamare uno scritto in rete di una quindicina di anni fa, in cui Gianni M. Gualberto osservava: Jarrett(…) ha da sempre rapporti estremamente eterodossi con la cultura americana, assimilandone molteplici fonti in modo non particolarmente sistematico, e cogliendone, ad esempio, in ambito musicale, il tratto innodico a più livelli, che è tratto caratteristico della sua arte” E ancora”…Jarrett sembra possedere con il jazz e con il vasto spettro della cultura africana-americana, lo stesso rapporto che Aaron Copland aveva con la cultura tradizionale del Midwest e del West: vi intravede, insomma, la chiave di lettura della propria più profonda identità culturale, senza però avere con essa un rapporto diretto, di nascita naturale. (…) La sua eterodossia ne fa un esempio artistico a se stante, senza possibili riferimenti a un unico ambito musicale: più che al jazz in sé, Jarrett ha fatto fare un grande balzo in avanti alla cosiddetta “Americana”, impresa riuscita a pochissimi jazzisti presi singolarmente. D’altronde, in questa enciclopedica, spesso eclettica eterodossia, è impresa improba voler vagliare i risultati solo alla luce dell’improvvisazione jazzistica, che nell’estetica di Jarrett, per quanto importante, non è l’unico elemento fondamentale, sottolineando ancora una volta il dinamismo di una cultura, quella del Nuovo Mondo, capace di un’assimilazionismo rielaborativo di straordinaria rilevanza”.

L’estroso e (ferocemente) discusso pianista riesce qui a collegare a suo modo diversi contributi musicali popolari e non, profondamente americani, presenti nella sua contemporaneità di quegli anni ‘70. Il Jazz, certo, in una lettura personale, visto attraverso le innovazioni musicali portate dal Free di Ornette Coleman, e presenti nella musica del quartetto anche tramite la presenza di Dewey Redman – che era, guarda caso, di Forth Worth, Texas, come Coleman- al quale si riallaccia anche un forte radicamento nel folk e nel blues, tipico dei musicisti afro-americani di quel territorio. Il gospel, collegato al tratto innodico/religioso richiamato da Gualberto e presente nella cultura di base del pianista sin dalle sue radici familiari. Ma in Jarrett, soprattutto in questo disco, è presente anche il lato “bianco americano” del suo essere musicista, ossia la musica folk americana, il country e il rock. Quello che all’epoca fu da noi giudicato (in modo a dir poco improprio e condito da ingiustificato paternalismo) come un’esemplificazione musicale dell’orrendo mix culturale tipico degli americani, era ed è ancora oggi forse il punto di forza, non solo di Jarrett, ma dell’intera cultura americana, non solo musicale.

Il quartetto americano per quanto strutturalmente si potrebbe riallacciare al quartetto coltraniano filtrato dalla precedente esperienza nell quartetto di Charles Lloyd, in realtà si realizza in modo parecchio differente, nel quale i ruoli di leadership tra pianista e sassofonista si riequilibrano rispetto a quelli più sbilanciati verso il sassofonista, tra Coltrane e Tyner, diventando comunque più dialettici, in quella sorta di incontro-scontro tra cultura musicale afro-americana (Redman) e americana bianca (Jarrett) che si poteva cogliere nella musica. Il risultato si presenta in effetti molto differente, in quanto la presenza che aleggia nella musica del quartetto e più quella di Coleman che quella di Coltrane, il che si spiega, oltre che con l’evidente presenza dei collaboratori del contraltista, anche per il fatto che la concezione colemaniana era allora per Jarrett (ma la cosa si è estesa nei decenni successivi a molti altri) più libera (nel senso di meno indirizzata) e aperta a diverse possibilità. Non a caso anche nella musica anni ‘80 di Pat Metheny, che probabilmente a questo disco e al quartetto americano deve più di qualcosa, si coglie un’influenza colemaniana, in modo analogo a quella subita da Jarrett in quegli anni ’70, e ben si sa che entrambi si possono far rientrare nello stesso ambito della citata“Americana”, più che al jazz vero e proprio.

L’album è composto pressoché interamente di composizioni di Jarrett che ebbe modo a suo tempo di descrivere: “Quel gruppo come il più difficile gruppo del mondo per il quale scrivere, considerando anche le spiccate e diverse personalità che animavano il gruppo. In linea di massima la scrittura di Jarrett per il disco possiede un tratto fortemente melodico, utilizzando ispirazioni diverse tra quelle citate e accoppiate in composizioni nelle quali due temi si intrecciano continuamente tra loro.  Nel caso dello splendido brano di apertura, The Rich (And The Poor) Jarrett collega sotto lo spettro della sua visione eterodossa il gospel col blues, in un brano perciò di ispirazione nettamente afro-americana nel quale emerge tutta la forza ritmica ed espressiva tipica di quel bacino culturale e dove Dewey Redman, in particolare, dimostra di andare letteralmente a nozze.

Fullsuvollivus (Fools Of All Of Us) e Angles (Without Edges) possono essere invece raggruppate come composizioni ispirate alla musica di Ornette Coleman, sempre però vissute dal punto di vista jarrettiano. Nel primo in particolare si intrecciano due parti che mettono in evidenza sia l’aspetto melodico di Coleman, oltre a quello classico dell’improvvisazione libera. Analogamente le brevi Blue Streak, Introduction / Yaqui Indian Folk Song e Treasure Island possono essere raggruppate, poiché evidenziano un tratto melodico ispirato più alla musica folk americana tutta che solo al jazz e all’afro-americanità. Nel primo caso si intreccia un tema melodico con un vamp, nel secondo una delicata introduzione del pianista con un tema folk, mentre nel terzo la chitarra di Sam Brown in sostituzione di Redman attribuisce al brano un’atmosfera che ricorda e premonizza in qualche modo il sound del Pat Metheny Group fine anni ’70-inizio ’80.

Le Mistral insieme al brano iniziale è forse il brano più riuscito e peraltro tipico dell’estetica jarrettiana del periodo, composto da un iniziale vamp seguito da una seconda parte caratterizzata da una ingegnosa sequenza di accordi in continuo intreccio reciproco. Chiude il disco Sister Fortune, un brano invece di forte ispirazione pop-rock che sicuramente avrà fatto storcere il naso all’epoca a più di un jazzofilo. Oggi credo molto meno, considerato come ormai sia abituato, suo malgrado, a tollerare sedicenti “contaminazioni “ jazzistiche in cui il jazz è ormai curiosamente del tutto assente.
(Riccardo Facchi)

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