David Gilmore, oramai cinquantenne, è uno dei chitarristi più richiesti del jazz americano di oggi, e ascoltandone i contributi disseminati in lungo e in largo in una carriera più che ventennale, non si fatica a capire il perché. Versatile ed evoluto, il suo stile ben si adatta alle più disparate esigenze, dalle sonorità più spigolose e geometriche di Steve Coleman al mainstream contemporaneo di Orrin Evans e molti altri ancora (Muhal Richard Abrahams, Uri Caine, Wayne Shorter, Rudresh Mahantappah, Don Byron, Dave Douglas, solo per dirne alcuni). Sorprende, piuttosto, che la sua discografia da leader sia tanto esigua. ‘Energies Of Change’, oltre ad essere il nome dell’ultimo cd, è pure quello della band, un formidabile quintetto ben rodato sui palchi e, di conseguenza, molto affiatato. Marcus Strickland (sax), Ben Williams (basso), Luis Perdomo (piano), Antonio Sanchez (batteria) sono perfetti compagni di viaggio per esplorare le composizioni del chitarrista, temi dalla melodia obliqua su cui la band costruisce notevolissime improvvisazioni all’insegna della dinamica; i fraseggi intricati di Gilmore e Strickland, ora più graffianti e sul punto di esplodere (‘Raias Guna’), ora più rilassati e liquidi, sospesi sulla tensione ritmica creata da piano e batteria (‘Awakening’), non si pestano mai i piedi grazie ad un’attenta gestione degli spazi, anche quando chitarra e piano procedono fianco a fianco per ampie e originali armonizzazioni che lavorano molto sul colore strumentale. Da un lato, Gilmore ha assorbito la scrittura per cicli ritmici di Steve Coleman, i suoi spigoli e il suo gusto melodico; dall’altro ha appreso bene pure la lezione del post-bop da Grant Green a Terence Blanchard passando per Herbie Hancock e Woody Shaw. Groove, capacità di scrittura e improvvisazione, fantasia e attenzione al dettaglio fanno di ‘Energies Of Change’ un gran bel sunto del jazz odierno, fra familiarità di suoni e patrimonio culturale e fresca rilettura dei medesimi.
(Negrodeath)