FREE FALL JAZZ

giezz's Articles

Muscolare. Musicista muscolare. Lo si legge spesso e volentieri, negli articoli italiani sul jazz (non sui nostri, tranne in questo). In inglese almeno, “muscular” e “jazz” danno ricerche infruttuose, Google alla mano. Ma pure con altri aggettivi della stessa area semantica non va molto meglio. Tranquilli, non sto facendo della linguistica comparata! (Continua a leggere)

Frequento i social da poco tempo, meno di un anno e devo dire che se ne leggono delle belle intorno alla materia jazzistica, in un modo che, a mio avviso, è quanto mai indicativo dello stato di confusione che regna in merito ormai da troppo tempo nel nostro paese. C’è chi, specie tra gli stessi musicisti nazionali, invoca l’obbligo di sostenere il cosiddetto “jazz italiano”, altri che sostengono all’opposto che “Jazz” è una parola superata e se serve ad etichettare certo “jazz europeo” ormai completamente “sbiancato” in lavatrice con forti dosi di candeggina, allora non può essere utilizzata da ciò che viene prodotto oggi negli U.S.A. dai musicisti afroamericani, che preferiscono parlare di Black American Music (la cosiddetta B.A.M.). (Continua a leggere)


Lo avrete già letto, immagino: il ministro Franceschini lancia un fondo straordinario da 500.000 euro per il jazz. “‘E’ una realtà su cui si deve investire e che in questi anni la politica ha colpevolmente ignorato”, dice (qui tutto il comunicato). Come verranno spesi questi soldi, come verrà organizzata la cosa etc etc? Ancora non sappiamo nulla, perché il fondo partirà dal 2015. Una cosa, tuttavia, ci sentiamo di dire: questo è l’ultimo anno in cui potremo andare ad una sagra senza il sottofondo di trombe, trombette, pianoforti e flycorni. Affrettatevi.

Joe Jackson. Bryan Ferry. Mina. Dexter Gordon.
Cosa hanno in comune? Fanno jazz. Ma come, direte voi, ok per Dexter, ci mancherebbe ma gli altri? Beh, non è colpa mia, hanno fatto dischi jazz. Lo dicono le cartelle stampa, non io, che mi sto attenendo strettamente alla loro realtà. Di Joe Jackson  e di Bryan Ferry abbiamo già parlato. Di Mina se ne parla qui: in breve, c’è un disco in uscita il 4 dicembre, chiamato ‘American Song Book’, in cui la Tigre di Cremona affronta dodici classici della canzone americana. Dado Moroni al piano. Cosa accomuni queste operazioni è abbastanza evidente: musicisti non più di primo pelo che vogliono darsi una patina di jazzosità a buon mercato per (a scelta, valgono pure le combinanzioni) soddisfare il proprio ego, rifarsi un’immagine, togliersi una voglia. La patina di jazzosità è sempre artificiosa e fatta dei più superficiali simboli, sonori e non, che chiunque associa al jazz: blue note, fiati, ritmi sincopati, repertorio storicizzato, lo smoking e la tuba, la Harlem Renaissance, i negri. Potremmo dire chi se ne frega, però il rischio di trovarci questi fenomeni in cima ai cartelloni dei festival nostrani non è un rischio da escludere. L’unica fortuna, in questo caso, è che la Tigre non si esibisce più dal vivo da secoli. Altrimenti da Cremona farebbe una capatina a Perugia o a Torino quasi sicuramente. E risiamo da capo. Manca solo il contributo ineffabile di Giovanni Allevi, che almeno per ora dice di no perché fra lui e il jazz esisterebbe un’incompatibilità di tipo psichiatrico. Strano, vista la mitomania dell’odioso ricciolone. Ma se cambiasse idea, siamo sicuri che pure a lui un bel posticino nelle posizioni di spicco di un festival o due non lo negherebbe nessuno. Anzi, vedrai che se Arbore insiste…