FREE FALL JAZZ

la la la's Articles

Ci risiamo. Il jazz l’hanno inventato i siciliani. Lo ripete per l’ennesima volta Renzo Arbore (e chi altro?), bello tronfio non solo per aver rappresentato l’Italia a New York nel mese della cultura italiana in America, ma anche perché ha prodotto un documentario (‘Da Palermo A New Orleans, e fu subito jazz’) per sostenere la solita stronzata: siccome l’Original Dixieland Jass Band ha fatto la prima incisione considerata jazz nel 1917, allora l’ha pure inventato. E di conseguenza, il jazz è roba di Sicilia. Una riprova? Francesco Cafiso che da buon siciliano ha il jazz nel dna perché suonava bene a quattordici anni. Siamo a livello “i negri hanno il ritmo nel sangue”, faccio notare. In più, Arbore riceverà presto la laurea honoris causa dal Berklee College Of Music (o meglio, dalla sezione italiana che dirige i seminari a Perugia, non dalla sede californiana) nel prossimo Umbria Jazz. Immagino sia per il quarantennale di Umbria Jazz, della cui Fondazione Arbore è attuale presidente. E in un festival jazz che ormai è un festival di musica pop con un po’ di jazz di contorno, in effetti, tutto torna: Arbore incarna perfettamente tutta questa cialtroneria diffusa. Ora vorrei tanto che qualcuno dal mondo del jazz strigliasse pubblicamente il simpatico guitto foggiano, come fece Uto Ughi con l’orrendo Giovanni Allevi. Ma si parla di jazz, non di musica classica; e il jazz è musica da aperitivi e degustazioni, robetta in fin dei conti, e quindi possiamo dire tutte le stronzate che vogliamo in libertà.

E in questa veste  (presidente di Umbria Jazz) andremo in giugno a presentare a New York il jazz italiano che è il migliore del mondo“. (Renzo Arbore)

Il resto, se proprio dovete, qui.

Il materiale biografico che accompagna questo album cita le celebri parole del critico Whitney Balliet (“il jazz è il suono della sorpresa”) e prosegue affermando che, seguendo lo stesso criterio di valutazione, ‘Cuts’ sarebbe “il suono per colpire e terrorizzare”. Partendo da questi due presupposti in sequenza, ‘Cuts’ alla fine sorprende poco ed è esattamente quello che ci può aspettare da una joint venture fra il re del noise giapponese Merzbow, il suo collaboratore Balasz Pandi alla batteria e un sassofonista del giro di Peter Broetzmann come Mats Gustafsson: un assalto di noise assordante e distruttivo. Esattamente uguale, cioè, a quel che fa Merzbow di solito, con tantissimo rumore bianco che satura ogni frequenza, accompagnato stavolta da un sax/clarinetto petomane e da una batteria asincrona e fragorosa, di quelle che non imprimono un moto alla musica, ma aggiungono volume e caos. Del resto, la musica non è nemmeno contemplata qui dentro: si va avanti con eruzioni di rumore che puntano a stordire e prostrare l’ascoltatore, portandolo all’inevitabile insensibilità. Certo, ci si può arrivare ben prima della fine del disco, che dura appena settanta minuti. (Continua a leggere)

Joe Jackson. Bryan Ferry. Mina. Dexter Gordon.
Cosa hanno in comune? Fanno jazz. Ma come, direte voi, ok per Dexter, ci mancherebbe ma gli altri? Beh, non è colpa mia, hanno fatto dischi jazz. Lo dicono le cartelle stampa, non io, che mi sto attenendo strettamente alla loro realtà. Di Joe Jackson  e di Bryan Ferry abbiamo già parlato. Di Mina se ne parla qui: in breve, c’è un disco in uscita il 4 dicembre, chiamato ‘American Song Book’, in cui la Tigre di Cremona affronta dodici classici della canzone americana. Dado Moroni al piano. Cosa accomuni queste operazioni è abbastanza evidente: musicisti non più di primo pelo che vogliono darsi una patina di jazzosità a buon mercato per (a scelta, valgono pure le combinanzioni) soddisfare il proprio ego, rifarsi un’immagine, togliersi una voglia. La patina di jazzosità è sempre artificiosa e fatta dei più superficiali simboli, sonori e non, che chiunque associa al jazz: blue note, fiati, ritmi sincopati, repertorio storicizzato, lo smoking e la tuba, la Harlem Renaissance, i negri. Potremmo dire chi se ne frega, però il rischio di trovarci questi fenomeni in cima ai cartelloni dei festival nostrani non è un rischio da escludere. L’unica fortuna, in questo caso, è che la Tigre non si esibisce più dal vivo da secoli. Altrimenti da Cremona farebbe una capatina a Perugia o a Torino quasi sicuramente. E risiamo da capo. Manca solo il contributo ineffabile di Giovanni Allevi, che almeno per ora dice di no perché fra lui e il jazz esisterebbe un’incompatibilità di tipo psichiatrico. Strano, vista la mitomania dell’odioso ricciolone. Ma se cambiasse idea, siamo sicuri che pure a lui un bel posticino nelle posizioni di spicco di un festival o due non lo negherebbe nessuno. Anzi, vedrai che se Arbore insiste…

Se per caso non vi fosse bastata la spedizione di Joe Jackson nelle lande di Ellingtonia, non preoccupatevi: il mese prossimo esce ‘The Jazz Age’, album in cui Bryan Ferry rivisita in chiave jazz successi del suo passato, solista & coi Roxy Music. La copertina riecheggia i manifesti di Winold Reiss, e di riflesso gli anni della Harlem Renaissance, quindi di quella musica che suonano i musicisti saggi e maturi, o meglio vecchi, quando non morti, insomma il jazz. E già qui son pernacchie, ma vabbeh. Apprendiamo dalla cartella stampa che Bryan Ferry è sempre stato collegato al mondo del jazz, grazie alla sua immagine da squalo dei cocktail bar (e nei cocktail bar cosa si ascolta?). Forte di queste credenziali, roba da far impallidire Louis Armstrong, Bryan ha assemblato un’orchestra di top giezzs musicscianzs per creare nuove versioni orchestral-jazz del suo vecchio repertorio. “Più di recente sono ritornato alle radici, alla stravagante e meravigliosa musica degli anni ’20 – la decade diventata famosa come Età del Jazz. [...] Dopo quarant’anni di musica, sia con che senza i Roxy Music, ho pensato che ora potrebbe essere un momento interessante per rivisitare alcune di quelle canzoni, e di trattarle come brani strumentali di quel magico periodo.” (Continua a leggere)

The 6th Floor è un blog presente sul sito del New York Times in cui i vari membri dello staff del celebre quotidiano pubblicano articoli, link, curiosità e quant’altro. In scia all’uscita di ‘Spirit Fiction’, suo primo album per la Blue Note, il “sesto piano” ospita Ravi Coltrane, che propone, snocciolando anche commenti e qualche aneddoto, una playlist dei suoi dieci brani preferiti in cui suonano suo padre e/o sua madre (e, se dobbiamo dirvi chi sono, vuol dire che siete capitati su queste pagine per sbaglio cercando zozzerie o i Robinson su Google). Potete leggere/ascoltare il tutto a questo link.

Playlist succose questa settimana: dal divertente video scelto da Carlo Cimino alla chicca del “recente acquisto” Mau, che propone un video di Neneh Cherry & The Thing girato da lui stesso al festival di Ljubljana. Per il resto, cose ottime come sempre: buon ascolto, se il caldo non vi ha ancora liquefatti. O se siete con il cellulare sotto l’ombrellone.


Carlo Cimino

VICTOR BORGE


Dinahrose

PHILLY JOE JONES - Mo’ Joe (1968)

(Continua a leggere)

Lo scorso weekend abbiamo preferito dare spazio ai cartoni animati, quello precedente si era in giro per concerti, e dunque i nostri consigli non richiesti arrivano un po’ in ritardo questo mese. Ecco cosa è girato di più nelle nostre orecchie nei trenta giorni precedenti.


Dinahrose

JOHN MCLAUGHLIN - Devotion (1970)

(Continua a leggere)

Anche per questo mese ecco a voi i nostri consigli non richiesti. Che di solito sono roba buona.


Dinahrose

KENNY CLARKE - Bohemia After Dark (1955)

(Continua a leggere)

Dopo un mese di sosta (nel quale sono state sostituite dal pescione d’Aprile su Miles & Jimi), tornano le nostre playlist mensili. Dato che impaginarle nel vecchio modo mi faceva troppa fatica, da questo mese si cambia formula: ognuno di noi pesca un solo disco a testa (al solito, nuovo o vecchio non ha importanza) che nello scorso mese ha ascoltato molto e ne propone un brano. Manca la scelta di Carlo Cimino, in altre faccende affaccendato, ma dato che qui funziona un po’ come ci pare, ci riserviamo eventualmente di inserirla in un secondo momento, nel caso. Enjoy.

 


Dinahrose

FRANK WRIGHT - kevin my dear son (1978)

(Continua a leggere)