FREE FALL JAZZ

Joe Jackson. Bryan Ferry. Mina. Dexter Gordon.
Cosa hanno in comune? Fanno jazz. Ma come, direte voi, ok per Dexter, ci mancherebbe ma gli altri? Beh, non è colpa mia, hanno fatto dischi jazz. Lo dicono le cartelle stampa, non io, che mi sto attenendo strettamente alla loro realtà. Di Joe Jackson  e di Bryan Ferry abbiamo già parlato. Di Mina se ne parla qui: in breve, c’è un disco in uscita il 4 dicembre, chiamato ‘American Song Book’, in cui la Tigre di Cremona affronta dodici classici della canzone americana. Dado Moroni al piano. Cosa accomuni queste operazioni è abbastanza evidente: musicisti non più di primo pelo che vogliono darsi una patina di jazzosità a buon mercato per (a scelta, valgono pure le combinanzioni) soddisfare il proprio ego, rifarsi un’immagine, togliersi una voglia. La patina di jazzosità è sempre artificiosa e fatta dei più superficiali simboli, sonori e non, che chiunque associa al jazz: blue note, fiati, ritmi sincopati, repertorio storicizzato, lo smoking e la tuba, la Harlem Renaissance, i negri. Potremmo dire chi se ne frega, però il rischio di trovarci questi fenomeni in cima ai cartelloni dei festival nostrani non è un rischio da escludere. L’unica fortuna, in questo caso, è che la Tigre non si esibisce più dal vivo da secoli. Altrimenti da Cremona farebbe una capatina a Perugia o a Torino quasi sicuramente. E risiamo da capo. Manca solo il contributo ineffabile di Giovanni Allevi, che almeno per ora dice di no perché fra lui e il jazz esisterebbe un’incompatibilità di tipo psichiatrico. Strano, vista la mitomania dell’odioso ricciolone. Ma se cambiasse idea, siamo sicuri che pure a lui un bel posticino nelle posizioni di spicco di un festival o due non lo negherebbe nessuno. Anzi, vedrai che se Arbore insiste…

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