FREE FALL JAZZ

la cultura si degvsta's Articles

Hai voglia di ignorare il Festival di Sanremo, di inarcare le sopracciglia ben disegnate o arricciare il delizioso nasino. Non si può negare l’antropologia culturale: così come non si può negare agli indios Nambikwara di essere così come li raffigura “Tristes Tropiques”, non si può negare a Sanremo di essere lo specchio di quell’Italia che è passata dal mondo contadino all’arricchimento post-industriale senza avere avuto il tempo di superare l’insegnamento coatto-clerical-democratico di “Non è mai troppo tardi”. (Continua a leggere)


Lo avrete già letto, immagino: il ministro Franceschini lancia un fondo straordinario da 500.000 euro per il jazz. “‘E’ una realtà su cui si deve investire e che in questi anni la politica ha colpevolmente ignorato”, dice (qui tutto il comunicato). Come verranno spesi questi soldi, come verrà organizzata la cosa etc etc? Ancora non sappiamo nulla, perché il fondo partirà dal 2015. Una cosa, tuttavia, ci sentiamo di dire: questo è l’ultimo anno in cui potremo andare ad una sagra senza il sottofondo di trombe, trombette, pianoforti e flycorni. Affrettatevi.

Forse lo avrete già letto da altre parti, comunque il Lenox Lounge, storico club di Harlem, chiude i battenti fra poco. I motivi sono banali: l’affitto sempre più alto, visto che la zona è ormai una zona metropolitana viva e vitale, con un sacco di locali e ristoranti alla moda che fanno levitare i prezzi alle stelle. E se non te lo puoi permettere sei costretto a filare, come si appresta a fare il buon Al Reed. Che però si tiene il nome: non si potrà aprire un altro Lenox Lounge. Probabile anzi che lo apra di nuovo lui stesso da qualche altra parte. Ok, qui è nuda cronaca, ora veniamo alle cose serie (o alla tragicommedia). Un giornablogger dell’Espresso si chiede, partendo da questa notizia, se il jazz non sia musica soprassata buona solo per chi ha il domicilio all’ospizio. Il pubblico ha altri gusti, preferisce i ristorantini alla moda, il jazz è sorpassato, forse è giusto così, o tempora o mores. (Continua a leggere)

Parlare di jazz. Non so quanto spesso vi capiti, ma a me praticamente mai. Ai miei amici non interessa, così devo rifugiarmi qui sull’interwebs, discorrere con Nico e Ildebrando (alias StepTb), coi pochissimi contatti su Facebook interessati, e poi basta, o giù di lì. Adesso immaginerete una profonda esternazione di cordoglio da parte mia, vero? Debbo coltivare la mia passione in solitudine, senza alcun contatto umano, soffocato dall’alienazione indotta dal digitale e la virtualizzazione dei rapporti, giusto? Una catastrofe. E invece, meno male che posso fare così. Perché se mi dovessi limitare a quel che sento e sento dire, il jazz sarebbe solo una noiosissima e blanda musica per rincoglioniti in disperato deficit da distinzione sociale. Non tutti, chiaramente, ma molti sì. E come si sia arrivati a questa situazione non lo so, perché la mia passione per il jazz l’ho vissuta senza sapere molto dell’evoluzione del pubblico italiano. Tuttavia, qualche ipotesi si può fare, delle osservazioni sul presente pure, e trarre conclusioni anche.

Fino agli ’60, il jazz era una roba tutta americana: nel senso che, se lo volevi suonare, suonavi come gli americani anche se eri del Madagascar o di Pontestazzemese. Poi sono nate le varie scuole nazionali. La vicenda del jazz italiano ha avuto una storia lunga che qua non c’interessa tratteggiare, se non nell’ultima fase. Fase coincidente con l’attuale e che vede un’ormai consolidata sinergia fra la frangia di pubblico colto-wannabe, quello che frequenta cinema, mostre, vernissage e degustazioni e giammai va a vedere un cinepanettone, e l’ambiente di chi il jazz lo produce e lo suona, che ha deciso di intercettare e spremere questo vasto bacino. (Continua a leggere)