FREE FALL JAZZ

Frequento i social da poco tempo, meno di un anno e devo dire che se ne leggono delle belle intorno alla materia jazzistica, in un modo che, a mio avviso, è quanto mai indicativo dello stato di confusione che regna in merito ormai da troppo tempo nel nostro paese. C’è chi, specie tra gli stessi musicisti nazionali, invoca l’obbligo di sostenere il cosiddetto “jazz italiano”, altri che sostengono all’opposto che “Jazz” è una parola superata e se serve ad etichettare certo “jazz europeo” ormai completamente “sbiancato” in lavatrice con forti dosi di candeggina, allora non può essere utilizzata da ciò che viene prodotto oggi negli U.S.A. dai musicisti afroamericani, che preferiscono parlare di Black American Music (la cosiddetta B.A.M.). Chi addirittura, con sicumera degna di miglior causa, sostiene apoditticamente che “Ellington di nero aveva solo la pelle, non la cultura”, dimostrando forse di aver letto la sua biografia su Topolino e di averlo ascoltato in un’ improbabile edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Oppure chi si lancia in argomentazioni teoricamente più tecniche come: “l’armonia e la forma sono opera degli europei, non degli afroamericani”, come prova del fatto che il jazz non può essere rivendicato come di loro proprietà esclusiva. Da lì, arrivare ad accettare che il jazz sia in realtà di origini siculo-italiche, come da alcuni anni viene propagandato in modo del tutto mistificatorio e ignorante, sfruttando un terreno, peraltro ben preparato, di incultura musicale e jazzistica, il passo è  breve. Certo, categorizzare la musica improvvisata che si produce oggi negli States con termini generici come “mainstream americano”, per indicare implicitamente qualcosa di ormai obsoleto rispetto ad una supposta “universalità musicale” e una concezione “evoluzionistica” del jazz, dettate dalle contaminazioni linguistiche odierne proprie del mondo globalizzato, che invecchierebbero tutto rispetto al “nuovo” (o sedicente tale) rendendo indistinguibili le peculiarità di genere, ormai superate, fa sembrare tutto una sorta di pappa omogeneizzata per neonati.

O, ancora, si assiste a dibattiti e accese battaglie verbali,  in cui si incrociano fazioni di “avanguardisti” (che magari propongono avanguardia di 50 anni fa, abbastanza attempata, ma fa nulla) rispetto ai “tradizionalisti”, conservatori che negano qualsiasi tipo di progresso musicale al di fuori dei confini americani, un po’ come si fa nella degradata politica nazionale di oggi, o nello scontro tra bande di tifosi del calcio. In questo senso, prendersela tipicamente con Wynton Marsalis, identificato in modo brutalmente etichettatorio come l’emblema del conservatorismo jazzistico più bieco e, conseguentemente, come il nemico numero uno da combattere è diventato quasi un “must” e un modo implicito per farsi accettare da una non meglio identificata élite musicologica nazionale che si è auto accreditata come l’unica in grado di dispensare cosa sia arte o meno in ambito jazzistico, o sedicente tale.

Allora, forse sarebbe il caso di fare un po’ di chiarezza. Lo dico soprattutto ai molti nostri musicisti che si cimentano con il linguaggio jazzistico, o semplicemente improvvisato, chiedendo loro di mettersi anche nei panni dell’appassionato ascoltatore, e di considerarlo l’elemento principe cui si dovrebbe professionalmente badare, e non, come capita spesso di intuire tra le righe di certi discorsi, un deretano che occupa una poltrona di teatro (e chissà che, se così fosse, ciò non costituisca una fortuna per molti): a chi fruisce e ascolta interessa solo sentire e gustare della buona, e se possibile, grande musica. Dei nazionalismi musicali non sa che farsene, non si sta tifando per la Nazionale di calcio o per le medaglie olimpiche. Discorsi poi di categoria in tale ambito sfiorano il ridicolo, sorta di sindacalismo musicale privo del benché minimo interesse per gli appassionati autentici. Estendere le proprie esigenze professionali e le proprie aspirazioni al consenso e al riconoscimento pubblico, configurandole a sorta di bene comune da preservare, è  pretesa che sfiora l’assurdo, o un delirio egocentrico che non si pretende nell’esercizio di nessun altra professione.

D’altra parte, è ben curioso che ci si infervori contro chi rivendica musicalmente una sua identità musicale peraltro con anche discrete argomentazioni a supporto, come fa Nicholas Payton, e si pretenda poi di imporre un jazz per nazionalità o identità geografiche. Due pesi e due misure, mi pare. Peraltro, il jazz è un linguaggio che ha delle caratteristiche ben precise, non tanto sul piano armonico, quanto su quello ritmico che sono imprescindibili e perfettamente riconoscibili ad ogni appassionato (non dell’ultima ora) che si rispetti. Una diversa pronuncia che si può avere nell’affrontarlo non può generare pretese di affrancamento con magari aggiunta una espropriazione terminologica. Il Jazz è uno solo, pur nella sua molteplicità di fonti, di interpretazioni e di sincretismi e non è comunque  lo strumento dell’improvvisazione ad identificarlo, come in molti erroneamente pensano. Dire che esiste un jazz diverso per nazionalità o luogo geografico sarebbe come dire che, analogamente, esiste un inglese diverso e distinto per luogo dove lo si parla. Quindi esiste l’inglese italiano, quello giapponese, norvegese, russo piuttosto che polacco  e ciascun paese insegna il suo, diverso dagli altri. Mi domando allora, che ce ne facciamo degli insegnanti di madre lingua?
(Riccardo Facchi)

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