FREE FALL JAZZ

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Wadada-Leo-Smith-300x300Coltivavo l’intenzione dichiarata di replicare il provocatorio Flop Jazz che aveva ottenuto un riscontro inaspettato di lettori a fine anno scorso, ma devo confessare che non è mia abitudine ascoltare volutamente musica mediocre con tale fine. Diciamo che capita di inciamparci, ma tendenzialmente preferisco occupare il tempo libero ascoltando musica valida, se non di pregio, pertanto non mi sono capitate molte occasioni per criticare in negativo ciò che ho ascoltato e nemmeno è detto che abbia poi voglia di scriverne. In molti casi non ne vale proprio la pena. Tuttavia, uno dei pochi dischi ascoltati in questo periodo che mi hanno deluso e stimolato alla scrittura è questo A Cosmic Rhythm with Each Stroke che mi appresto a commentare, ovviamente senza pretesa di avere verità rivelate in tasca. (Continua a leggere)

Erano anni che non mi avvicinavo più all’ECM. La curiosità di sentire il SoupStar, che dal vivo mi ha sempre emozionato, con l’aggiunta di due musicisti come Louis Sclavis e Gerald Cleaver mi fatto saltare l’ostacolo. Inoltre anche la presenza di un brano che amo, Ida Lupino, ha fatto da par suo. Nonostante queste premesse, il disco purtroppo conferma le stesse caratteristiche “nordiche” dell’ECM. Suonato e registrato benissimo beninteso, ma che non riesce a emozionare. Peccato perchè dal pezzo iniziale, What We Talk About When We Talk About Love, un incedere su piano e batteria ipnotico dove il trombone di Petrella si inserisce benissimo, fino a Ida Lupino, le premesse per un gran disco c’erano tutte. L’ottima intesa tra i musicisti, rende l’ascolto molto piacevole anche se molto riflessivo, i colori e i ritmi si sovrappongo in maniera ottimale. (Continua a leggere)

Sempre più spesso ci capita di leggere discorsi contraddittori sul jazz, tra sedicenti “puristi” che vorrebbero ingabbiare questa musica in confini ristretti, magari semplicemente legati al proprio gusto personale e chi invece, cercando di darsi una apparenza di persona musicalmente e culturalmente aperta, straparla di “aprirsi alle musiche”, e di musica “evoluta”, se non proprio ormai affrancata dalla propria tradizione e mutata in qualcosa nel quale sarebbe ormai inutile cercare di identificare certe peculiarità stilistiche. (Continua a leggere)

Di tutte i significati della parola “mole”, mi piace pensare alla salsa speziata che, nella cucina messicana, accompagna numerosi piatti. Suppongo che ad essa facciano riferimento i Mole, duo messicano formato dal pianista Mark Aanderud e dal batterista Hernan Hecht. Al contrabbasso troviamo invece il nippo-americano Stomu Takeishi, già con Henry Threadgill, Don Cherry, Butch Morris, Wynton Marsalis, Paul Motian e altri ancora. ‘RGB’ è un accigliato disco di piano trio con temi orecchiabili e distesi di stampo pop, atmosfere malinconiche, un discreto tiro ritmico, e la sensazione via via più concreta di aver ascoltato sempre lo stesso pezzo, ma a velocità diverse. Suona familiare? (Continua a leggere)

Abbandonando il formato piano trio (con il quale aveva registrato alcuni dei dischi più belli del jazz del nuovo millennio, ovvero ‘Historicity’ e ‘Accelerando‘), Vijay Iyer si reinventa compositore d’avanguardia per il suo debutto da leader per la ECM, intitolato ‘Mutations’ e pubblicato il 4 Marzo 2014.

Le differenze con gli ultimi lavori pubblicati per la ACT Music sono evidenti: Iyer rifiuta infatti la strumentazione ritmica classica (né basso né batteria sono presenti per tutta l’ora di durata del disco), circondandosi invece di un quartetto d’archi di evidente formazione accademica (due violini – Miranda Cuckson e Michi Wiancko; una viola – Kyle Armbrust; un violoncello – Kivie Cahn-Lipman) e instillando nelle sonorità acustiche del quintetto frammenti subliminali di musica elettronica, ricercando una dimensione cameristica della musica di Iyer. (Continua a leggere)


Questo è un piccolo post inutile e poco professionale, nonché strabordante di pregiudizio. Fatto sta che, alla notizia che Vijay Iyer avrebbe inciso su ECM, ho subito pensato a Craig Taborn. Non perché si assomiglino in qualcosa, a parte l’essere pianisti jazz. No. Perché Taborn, pianista brillante e originale, incidendo per ECM è diventato il solito musicista plin plin plin che incide per ECM. Questo, se la pensate come me, è un male. Tornando a Vijay, da questo link si può sentire un pezzo del nuovo album, ‘Mutations’. L’ho ascoltato più volte, sperando in una chiave di lettura alternativa, ma niente: sembrerebbe l’ennesima incarnazione del sound ECM. Bestemmie a piacere dopo il segnale acustico…
(Negrodeath)

Il signore che vedete qui sopra è Manfred Eicher, padre-padrone della rinomata ECM Records, etichetta tedesca in attività dal 1969. Hanno inciso per ECM artisti come Keith Jarrett, l’Art Ensemble Of Chicago, Dave Holland, Paul Bley, Paul Motian, Charles Lloyd, Marion Brown, Jan Garbarek – jazzisti, per definirli in una parola sola. Nel 1984 nasce la costola ECM New Series, che pubblica gente come Arvo Paart, Heiner Goebbels, Meredith Monk, Ketil Bjornstad, Valentin Silvestrov, ascrivibili al giro della “contemporanea”. Forse. Il punto è, adesso, chissenefrega? Immagino questo salti per le menti di voialtri lettori. Ebbene, quella che segue è un’elucubrazione personale che non so quanto possa interessare il resto del mondo. (Continua a leggere)

Chris Potter ormai  non ha bisogno di presentazione. Tecnica stellare e versatilità a trecentosessanta gradi lo hanno reso il più credibile erede di Michael Brecker. Dopo una discografia lunga caratterizzata da dischi sempre “buoni, ottimi ma…”, Chris Potter esordisce ora su quell’ECM che pare di nuovo interessata ai musicisti americani. Le premesse in realtà sono scoraggianti: un disco chiamato ‘The Sirens’ e ispirato all’Odissea evoca subito orrende visioni wakemaniane. La formazione di per sè è ottima, con la particolarità di due pianisti: il grandissimo Craig Taborn fa il pianista normale, mentre l’astro nascente David Virelles si occupa di piano preparato, celesta e armonio; il contrabbasso di Larry Grenadier e la superba batteria di Eric Harland fanno il resto. (Continua a leggere)

Poteva mancare il jazz a Sanremo? No. Sanremo non è una kermesse gastronomica dove si degustano prosecchi, salumi e formaggi, quindi in teoria non sarebbe nemmeno il posto adatto per essere allietati dal dolce fischio d’un flicorno, però ci viene incontro il jiezzz stesso, che può essere suonato ed evocato a piacimento da chiunque: dai, su, basta un pianoforte sincopato, un ritmo veloce, qualche blue note tirata lì, un assolo di tromba perepè, un arrangiamento orchestrale swing-paesano, un cantato che faccia il verso alle voci americane ma in salsa italo pop, e siamo arrivati. (Continua a leggere)

Se avete un profilo Facebook e tra le vostre conoscenze figurano individui d’età compresa tra i 20 e i 35 anni (ma diciamo pure 40), sono pronto a scommettere che avete le scatole disintegrate dai terrificanti post sul concerto dei Radiohead – roba con un hype che manco la resurrezione di Cristo – e il vostro sogno neanche troppo recondito sarebbe stato di presentarvi ieri sera all’ippodromo delle Capannelle equipaggiati come Schwarzenegger in ‘Commando’ e uscire qualche ora dopo su tutti i telegiornali. Noi però abbiamo tenuto a bada certi istinti e ieri sera siamo andati a vedere Pomigliano Jazz che riapre i battenti (giunto ormai alla sua diciassettesima edizione), seppur in una location ridimensionata rispetto agli anni scorsi. (Continua a leggere)