FREE FALL JAZZ

ECM's Articles

Se vogliamo esemplificare i danni che l’attuale dominio del marketing e delle sue imposte regole possono provocare sulle pubblicazioni discografiche aventi supposte pretese “artistiche”, ne abbiamo qui giusto una plastica rappresentazione, con questa uscita post mortem di Kenny Wheeler. Si sa, quando un grande jazzista ci lascia, sull’emozione del momento la domanda di mercato cresce e perciò è importante pubblicare qualcosa di suo, in barba alla valutazione della qualità musicale ed artistica del prodotto che si intende immettere sul mercato e, quel che più conta, manifestando una certa indifferenza per  il rispetto che si deve all’immagine dell’artista.

Mi domando seriamente che servizio si vuol rendere alla memoria di un così grande musicista pubblicandogli una prestazione del genere, che stringe il cuore ed è a tratti davvero imbarazzante. (Continua a leggere)

Abbandonando il formato piano trio (con il quale aveva registrato alcuni dei dischi più belli del jazz del nuovo millennio, ovvero ‘Historicity’ e ‘Accelerando‘), Vijay Iyer si reinventa compositore d’avanguardia per il suo debutto da leader per la ECM, intitolato ‘Mutations’ e pubblicato il 4 Marzo 2014.

Le differenze con gli ultimi lavori pubblicati per la ACT Music sono evidenti: Iyer rifiuta infatti la strumentazione ritmica classica (né basso né batteria sono presenti per tutta l’ora di durata del disco), circondandosi invece di un quartetto d’archi di evidente formazione accademica (due violini – Miranda Cuckson e Michi Wiancko; una viola – Kyle Armbrust; un violoncello – Kivie Cahn-Lipman) e instillando nelle sonorità acustiche del quintetto frammenti subliminali di musica elettronica, ricercando una dimensione cameristica della musica di Iyer. (Continua a leggere)


Questo è un piccolo post inutile e poco professionale, nonché strabordante di pregiudizio. Fatto sta che, alla notizia che Vijay Iyer avrebbe inciso su ECM, ho subito pensato a Craig Taborn. Non perché si assomiglino in qualcosa, a parte l’essere pianisti jazz. No. Perché Taborn, pianista brillante e originale, incidendo per ECM è diventato il solito musicista plin plin plin che incide per ECM. Questo, se la pensate come me, è un male. Tornando a Vijay, da questo link si può sentire un pezzo del nuovo album, ‘Mutations’. L’ho ascoltato più volte, sperando in una chiave di lettura alternativa, ma niente: sembrerebbe l’ennesima incarnazione del sound ECM. Bestemmie a piacere dopo il segnale acustico…
(Negrodeath)

“Del maiale non si butta via niente” è la regola aurea della discografia. Ogni occasione è buona per immettere sul mercato materiale d’archivio dell’artista famoso e/o intoccabile, che può sempre contare su un pubblico fedele e numeroso. In quest’ottica rientra appieno pure ‘No End’, il nuovo-vecchio doppio album di Keith Jarrett, inciso nello studio domestico del musicista nel 1986 e subito accantonato. Il perché lo si intuisce presto: chiunque avrebbe potuto fare almeno altrettanto! La sola particolarità sta nel fatto che Jarrett non tocca quasi mai il piano, preferendogli chitarra elettrica (indiscussa protagonista), basso, tablas, batteria e flauto. Stilisticamente, e basta, siamo un po’ a cavallo fra il Pat Metheny di ‘Watercolors’ e certo Bill Frisell: blandi temi folk e orientali, questi ultimi soprattutto nel secondo cd, ruminati senza costrutto in venti brani tutti uguali. (Continua a leggere)

Il 2013 sembra essere l’anno della consacrazione definitiva di Vijay Iyer, il magnifico pianista newyorkese che su queste web-pagine abbiamo sempre lodato. (Continua a leggere)

Il signore che vedete qui sopra è Manfred Eicher, padre-padrone della rinomata ECM Records, etichetta tedesca in attività dal 1969. Hanno inciso per ECM artisti come Keith Jarrett, l’Art Ensemble Of Chicago, Dave Holland, Paul Bley, Paul Motian, Charles Lloyd, Marion Brown, Jan Garbarek – jazzisti, per definirli in una parola sola. Nel 1984 nasce la costola ECM New Series, che pubblica gente come Arvo Paart, Heiner Goebbels, Meredith Monk, Ketil Bjornstad, Valentin Silvestrov, ascrivibili al giro della “contemporanea”. Forse. Il punto è, adesso, chissenefrega? Immagino questo salti per le menti di voialtri lettori. Ebbene, quella che segue è un’elucubrazione personale che non so quanto possa interessare il resto del mondo. (Continua a leggere)

Chris Potter ormai  non ha bisogno di presentazione. Tecnica stellare e versatilità a trecentosessanta gradi lo hanno reso il più credibile erede di Michael Brecker. Dopo una discografia lunga caratterizzata da dischi sempre “buoni, ottimi ma…”, Chris Potter esordisce ora su quell’ECM che pare di nuovo interessata ai musicisti americani. Le premesse in realtà sono scoraggianti: un disco chiamato ‘The Sirens’ e ispirato all’Odissea evoca subito orrende visioni wakemaniane. La formazione di per sè è ottima, con la particolarità di due pianisti: il grandissimo Craig Taborn fa il pianista normale, mentre l’astro nascente David Virelles si occupa di piano preparato, celesta e armonio; il contrabbasso di Larry Grenadier e la superba batteria di Eric Harland fanno il resto. (Continua a leggere)


All’interno della meravigliosa Basilica dei Frari è ripartita la rassegna DUETS, organizzata dall’associazione Caligola. Giunta alla sua sesta edizione, ha presentato davanti a un pubblico abbastanza numeroso il duo, collaudatissimo, di Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia. Nato nel lontano 1994, con alle spalle 4 dischi, dei quali tre per la prestigiosa ECM, i nostri ormai navigano all’interno del mondo musicale con una leggerezza e profondità unica. Certo, non si tratta più di musica propriamente con radici jazzistiche, ma piuttosto di una visione globale. L’incontro tra Trovesi, protagonista della stagione forse più fervida di ricerca in campo jazzistico, con Coscia, musicista di estrazione classica ma con un passato nell’orchestra di Gorni Kramer, ha portato ad una sintesi musicale dai risultati molto interessanti. Il grande merito di Coscia è l’avere slegato uno strumento – la fisarmonica – dalla musica popolare ed averlo valorizzato nel jazz. Nonostante ciò, la radice popolare rimane presente nella proposta del duo, legandosi però alla musica colta e a quella di estrazione jazzistica. (Continua a leggere)

A leggere in giro, per molti questo album del contrabbassista Michael Formanek sarebbe il segno che sì, forse la ECM riapre le porte al jazz. Da lì ad avere un minimo di curiosità il passo è stato breve, ancor più breve dopo aver visto che del piano se ne occupa il magnifico Craig Taborn e della batteria Gerald Cleaver, due musicisti stimatissimi da chi scrive. Al sax c’è Tim Berne, approdato proprio di recente alla corte di Manfred Eicher e non esattamente l’ultimo dei bischeri. Una copertina che, almeno per una volta, non rappresenta fiordi, brughiere o colli ventosi, ma uno squarcio di New York, invoglia ulteriormente all’ascolto. Si parte. La musica di ‘The Rub And The Spare Change’ è ambiziosa e complessa, con ognuno dei quattro musicisti ben posizionato su un binario metrico leggermente sfasato da quello dei compagni. Mancano temi di facile presa come dei groove in grado di trascinare e mettere a suo agio l’ascoltatore, se non occasionalmente: una caratteristica non certo esclusiva di questo album, che però qui pesa particolarmente. (Continua a leggere)

Ecco finalmente sul mercato il disco di una formazione che all’epoca fece scalpore, ma registrò pochissimo. Rimasto nel cassetto per 30 anni, questo doppio CD del cosiddetto quartetto “europeo” di Keith Jarrett, con Jan Garbarek (sax e flauto), Palle Daniellson (basso) e Jon Christensen (batteria), determina i canoni esatti di cosa dovrebbe essere un quartetto! Registrato durante il tour del 1979 a Tokyo, nel quale nacque ‘Personal Mountains’, ‘Sleeper’ rende stupendamente bene l’affiatamento dei musicisti coinvolti. Jarrett, detto subito, suona benissimo, anzi di più, non che adesso non lo faccia, mentre le lunghe cavalcate di Garbarek sono il preludio a quella che sarà la sua ricerca musicale da lì a venire; la ritmica, superlativa, supporta il tutto con una leggerezza incredibile. I brani, che vanno dalla durata di 7 minuti a una ‘Oasis’ di ben oltre 28, lasciano bene intendere le potenzialità del gruppo: un lirismo virile, un interplay superbo, di cui forse lo stesso Jarrett sembra stupito con le sue esclamazioni di approvazione, e dove la musica scorre come un tranquillo ruscello di montagna (citazione?). Siamo al massimo, per il sottoscritto, della creatività del Jarrett più amato, quello lontano dalle bizze da rockstar, rinchiuso in una gabbia dorata, che cerca di ripetere, ma non raggiungere più tali vette. Un disco assolutamente da avere, ascoltare e riascoltare più volte, anche come modello per tanti, forse troppi gruppi tecnicamente bravi, ma senza il cuore necessario, che da queste note emerge prepotentemente. (Mau)