FREE FALL JAZZ

Abbandonando il formato piano trio (con il quale aveva registrato alcuni dei dischi più belli del jazz del nuovo millennio, ovvero ‘Historicity’ e ‘Accelerando‘), Vijay Iyer si reinventa compositore d’avanguardia per il suo debutto da leader per la ECM, intitolato ‘Mutations’ e pubblicato il 4 Marzo 2014.

Le differenze con gli ultimi lavori pubblicati per la ACT Music sono evidenti: Iyer rifiuta infatti la strumentazione ritmica classica (né basso né batteria sono presenti per tutta l’ora di durata del disco), circondandosi invece di un quartetto d’archi di evidente formazione accademica (due violini – Miranda Cuckson e Michi Wiancko; una viola – Kyle Armbrust; un violoncello – Kivie Cahn-Lipman) e instillando nelle sonorità acustiche del quintetto frammenti subliminali di musica elettronica, ricercando una dimensione cameristica della musica di Iyer.

Il fulcro dell’album è la suite ‘Mutations‘, composta di dieci movimenti che, come gran parte del catalogo dell’ECM, sembra ricercare il proprio obiettivo nel coniare una forma aristocratica di crossover tra le forme dell’avanguardia contemporanea e l’improvvisazione della musica jazz.

L’idea di partenza di ‘Mutations’ è intrigante, con tutti i suoi giochi di rimandi a minimalismo e musica sperimentale di sorta e l’utilizzo dell’elettronica ad avvolgere l’esecuzione del quintetto. Soprattutto nel lavoro del quartetto d’archi, è evidente l’impronta concettuale e musicale della ‘Music For 18 Musician’ di Steve Reich e della ‘Dolmen Music’ di Meredith Monk (non a caso, pubblicati al tempo proprio dalla ECM), anche se probabilmente i momenti più intriganti si trovano in quelli più affini ai lavori per archi di Béla Bartók (come in ‘Mutation II: Rise’). Ciò che non convince, però, è il fatto che tutta ‘Mutations’ sembra essere solo un’enorme collezione degli stereotipi delle release ECM ed ECM New Series, aspetto evidente sia nei movimenti più vicini alla musica da camera (si veda l’interminabile ostinato degli archi in ‘Mutation IX: Descent‘), sia soprattutto quando apre le porte alle immancabili inflessioni simil-new age (come nell’orrenda ‘Mutation V: Automata‘, con coda elettronica dal sapore arcadico, o nella conclusiva ‘Mutation X: Time‘).

Ma quel che è peggio è soprattutto la prevedibilità e totale mancanza di personalità esibita da Iyer, che passa dal contrappuntare passivamente i volteggi degli archi con pulsazioni minimaliste, al sembrare un emulatore qualsiasi dello stile impressionista di Bill Evans. Quando va bene, la sua prova al piano riporta alla mente quella del grande Anthony Davis; ma in generale, assale il dubbio che un qualsiasi altro pianista della scuderia di Manfred Eicher sarebbe riuscito a raggiungere lo stesso risultato.

Intorno a questa lunga suite, ruotano tre brani satelliti più brevi, che sono anche quelli che risentono maggiormente dell’estetica narcotizzante delle produzioni ECM. Il primo è una rilettura di ‘Spellbound and Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea‘, apparso originariamente su ‘Memorophilia’ (1995), che riesce nel difficile compito di risultare al contempo facilmente riconoscibile e orrendamente mutilata nella sua trasformazione da ballata per piano trio in elucubrazione per piano solo (particolarmente evidente sul finale, dove il poderoso exploit che caratterizzava la versione originale viene rimpiazzato da un’outro anticlimatica in linea con l’esecuzione evanescente della prima parte).

Gli altri due (‘Vuln Part 2‘ e ‘When We’re Gone‘) sono invece insignificanti composizioni originali più recenti (risalenti all’estate 2013) per pianoforte ed elettronica, strabordanti dei peggiori cliché dell’ECM (i soliti silenzi intervallati dai soliti plìn plìn di pianoforte, come si sente da decenni su questa label), che consacrano definitivamente ‘Mutations’ come una delle più cocenti delusioni dell’anno. (Ema)

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