Periodo dell’anno molto ricco di uscite, l’autunno. Oltre a Mary Halvorson, di cui vi abbiamo già parlato poco tempo fa, dobbiamo segnalare pure l’arrivo di James Brandon Lewis, Jonathan Finlayson e del supergruppo Aziza. (Continua a leggere)
Come tutti i musicisti che hanno saputo ottenere un grande successo commerciale in prossimità o a latere del jazz, Pat Metheny è sempre ascoltato e giudicato con un certo sospetto dagli appassionati più intransigenti, se non con vero e proprio pregiudizio, anche quando il tempo di quel successo, ottenuto nel suo caso con il celeberrimo Pat Metheny Group (PMG), è già passato da un pezzo e sarebbe oggi possibile valutare la sua musica e la sua opera, anche attuale, con maggiore distacco ed equilibrio critico, anche dai cosiddetti “puristi”. Chi come il sottoscritto prese ai tempi una reale cotta giovanile per la musica di quel gruppo, non può non riconoscere che quel sound, al tempo considerato così fresco e nuovo, risulta oggi piuttosto datato.
Il secondo album di Jonathan Blake è dedicato a chi se n’è andato ma non è stato dimenticato, come recita il titolo. Cedar Walton, Jim Hall, Paul Motian, Mulgrew Miller sono solo alcuni degli artisti cui il poderoso batterista rende omaggio, assemblando un fantastico quartetto con Ben Street al contrabbasso e i sassofonisti Mark Turner e Chris Potter. Una scelta, per quanto riguarda la frontline, davvero azzeccata, visto lo stile perfettamente complementare dei due: robusto e aggressivo Potter, melodico e astratto Turner. Un connubio che potremmo liquidare banalmente, citando celebri coppie di opposti come Hawkins/Young o Gordon/Grey, ma sarebbe ingiusto, vista la personalità e l’autorevolezza dei due. (Continua a leggere)
Chris Potter ormai non ha bisogno di presentazione. Tecnica stellare e versatilità a trecentosessanta gradi lo hanno reso il più credibile erede di Michael Brecker. Dopo una discografia lunga caratterizzata da dischi sempre “buoni, ottimi ma…”, Chris Potter esordisce ora su quell’ECM che pare di nuovo interessata ai musicisti americani. Le premesse in realtà sono scoraggianti: un disco chiamato ‘The Sirens’ e ispirato all’Odissea evoca subito orrende visioni wakemaniane. La formazione di per sè è ottima, con la particolarità di due pianisti: il grandissimo Craig Taborn fa il pianista normale, mentre l’astro nascente David Virelles si occupa di piano preparato, celesta e armonio; il contrabbasso di Larry Grenadier e la superba batteria di Eric Harland fanno il resto. (Continua a leggere)
La pietra miliare del batterista Adam Cruz è nientemeno che il suo album d’esordio, pubblicato a quarant’anni – buona metà dei quali spesi a suonare con una marea di nomi del jazzarama americano, fra cui Chick Corea, David Sanchez, Chris Potter e Danilo Perez (di cui è il batterista di fiducia). Per la sua prima sortita in solitario, Cruz assembla una formazione estesa e interessante dalle molte voci (tre sax, chitarra, piano, basso, oltre alla sua batteria) e scrive nove composizioni di ampio respiro che mettono in evidenza un talento davvero notevole. ‘Milestone’ è essenzialmente un grande album di post-bop, screziato di sonorità latine ma lontano dal mondo del latin jazz vero e proprio. Perché ritmi latini e melodie latine sono presenti, sì, ma non diventano mai davvero preponderanti; piuttosto, danno un colore particolare a questo e a quel passaggio. E il colore è uno degli aspetti essenziali di questo album, a partire da quelli della batteria, ricchissima di sfumature e sempre al servizio del suono di gruppo. Gruppo che vede nel tenore maestoso di Chris Potter e nel piano di Edward Simon due attori di primissimo piano, ben supportati da Cruz stesso e dal basso di Ben Street: una sezione ritmica mutevole ed elastica, carica di groove e capace di controllare la dinamica d’insieme con grande sensibilità. (Continua a leggere)