FREE FALL JAZZ

Se avete un profilo Facebook e tra le vostre conoscenze figurano individui d’età compresa tra i 20 e i 35 anni (ma diciamo pure 40), sono pronto a scommettere che avete le scatole disintegrate dai terrificanti post sul concerto dei Radiohead – roba con un hype che manco la resurrezione di Cristo – e il vostro sogno neanche troppo recondito sarebbe stato di presentarvi ieri sera all’ippodromo delle Capannelle equipaggiati come Schwarzenegger in ‘Commando’ e uscire qualche ora dopo su tutti i telegiornali. Noi però abbiamo tenuto a bada certi istinti e ieri sera siamo andati a vedere Pomigliano Jazz che riapre i battenti (giunto ormai alla sua diciassettesima edizione), seppur in una location ridimensionata rispetto agli anni scorsi.

Yaron Herman, che sale sul palco per primo, è un pianista israeliano. Leggo nella sua biografia che dopo pochi mesi al Berklee ha preferito mollare tutto per stabilirsi a Parigi, il che non depone esattamente in suo favore. I suoi dischi in trio che ho ascoltato non mi sono sembrati affatto imprescindibili, ma stasera si esibisce in piano solo: insult to injury direbbero gli americani. In realtà, in barba a qualunque pregiudizio, la sua prova offre persino qualche spunto interessante: un paio di momenti “hands on strings” (tecnica in cui una mano suona il pianoforte e l’altra blocca opportunamente le corde interne dello stesso) sembrano almeno un diversivo decente. Il resto però scorre via di plin plin plin, solito pianoforte inoffensivo un po’ Jarrett un po’ Mehldau un po’ “conosco anche la classica” che si protrae tra originali e qualche rilettura, tra le quali mi pare di scorgere ‘Les Feuilles Mortes’ (o qualcosa che vi somiglia molto). Viene accennata anche la nirvaniana ‘Heart Shaped Box’ ma nessuno se ne accorge, chissà se per l’eccessiva trasfigurazione o per la soglia d’attenzione poco uniforme: qualcuno gioca col cellulare, qualcun altro s’informa sul risultato di Juve – Chievo, a me appare in visione il volto dell’amico Negrodeath con la sua massima secondo cui i pianisti fichi discendono da McCoy Tyner e quelli noiosi da Evans e Jarrett.

Mi torna in mente un articolo letto qualche tempo fa sul sito americano Zmemusic: “Il pubblico sembra reagire solo alle qualità ritmiche – scriveva l’autore Mike Lamardo – La melodia “gli sfugge”, a meno che non sia una che già conoscono […] Qual è lo scopo di queste cover? Si tratta del tentativo della comunità jazz di creare un ponte tra il loro mondo e quello del pubblico pop tecnologicamente all’avanguardia? Per me sarebbe sconcertante se questo fosse il principale espediente che un artista jazz può usare per farsi ascoltare. Ma forse è l’unico possibile […] Brutto da ammettere, ma sono le cover ad attirare l’attenzione”. L’analisi del blogger a stelle e strisce di sicuro non si estende agli ascoltatori più attenti e smaliziati, ma inquadra alla perfezione una certa fascia di pubblico “casuale”, della quale Pomigliano Jazz, in virtù anche del suo essere gratis (che è ottima cosa, non fraintendete), abbonda: dai jazzisti “da salotto” in cerca di un tono (quelli della famosa “spilletta da sfoggiare”, come diceva un editoriale su queste stesse pagine) ai semplici curiosi che vanno a dare un’occhiata “perché c’è l’evento”, come farebbero con una sagra paesana o una festa patronale qualunque.

Al penultimo pezzo Herman (che in verità è pure simpatico quando prende il microfono e si scusa perchè il suo “italian is terrible”) attacca con delle note piuttosto familiari: quelle di ‘No Surprises’ dei Radiohead. Una rivisitazione che, non fosse per la melodia ben riconoscibile, si perderebbe come uno qualunque dei brani che l’hanno preceduta, e invece catalizza occhi e orecchie di un pubblico improvvisamente attonito. Al termine esplode un boato tipo goal di Grosso in Italia – Germania: qualcuno si alza in piedi provando a far partire la standing ovation, qualcun altro urla “Bravo! Bravo!”. Io mi chiedo se non fosse stato meglio prepararlo ugualmente, l’equipaggiamento di ‘Commando’. (Nico Toscani) 

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