FREE FALL JAZZ

Wadada-Leo-Smith-300x300Coltivavo l’intenzione dichiarata di replicare il provocatorio Flop Jazz che aveva ottenuto un riscontro inaspettato di lettori a fine anno scorso, ma devo confessare che non è mia abitudine ascoltare volutamente musica mediocre con tale fine. Diciamo che capita di inciamparci, ma tendenzialmente preferisco occupare il tempo libero ascoltando musica valida, se non di pregio, pertanto non mi sono capitate molte occasioni per criticare in negativo ciò che ho ascoltato e nemmeno è detto che abbia poi voglia di scriverne. In molti casi non ne vale proprio la pena. Tuttavia, uno dei pochi dischi ascoltati in questo periodo che mi hanno deluso e stimolato alla scrittura è questo A Cosmic Rhythm with Each Stroke che mi appresto a commentare, ovviamente senza pretesa di avere verità rivelate in tasca.

Premettendo che considero Vijay Iyer e Wadada Leo Smith due mirabili musicisti che hanno saputo singolarmente produrre negli ultimi anni dischi molto più che interessanti, devo anche dire che ho compreso poco le lodi sperticate lette a suo tempo su questo duo che, detto con franchezza, mi pare portatore di una progettualità sostanzialmente fallimentare, proponente cioè una musica povera di reali contenuti, mascherata dietro un’apparente atmosfera magica e di grande poesia. Ora, va bene tutto, la potenza del silenzio in relazione agli spazi creati tra le note lunghe del trombettista, sicuramente ispirate al prediletto Miles Davis (peraltro un po’ più impreciso e fallace rispetto all’originale) e agli accenni o le intelligenti sottolineature pianistiche di Iyer, ma non mi pare che ci stiamo occupando del livello musicale prodotto da storici duetti come quello, giusto per intenderci, tra Louis Armstrong e Earl Hines o, per rimanere a qualcosa di vagamente più affine in termini di poesia e di spazi creati tra note e silenzi, tra Paul Bley e Chet Baker.

Per essere chiari, un duo, per quanto sostanzialmente improvvisato (al di là della stucchevole diatriba jazz/non jazz e della qui evidente assenza della componente ritmica, peraltro in perfetta linea con l’attuale estetica ECM), dovrebbe almeno promettere una spiccata componente dialogica, una forma di interazione musicale, una elevata intesa tra i protagonisti, ma nulla di tutto questo si rileva, se non in rarissimi momenti, come verso la fine di A Divine Courage e nella traccia finale, Marian Anderson, che almeno concede una parvenza di tema costruito. Qui siamo spesso di fronte al fatto che quando suona uno, l’altro se ne sta zitto e buono, il che non pare giustificare la necessità di esibirsi in duo. Non a caso Iyer si guarda bene dall’imporre una qualche struttura accordale che arricchisca il discorso solistico di Smith (limitandosi quasi esclusivamente a un apporto timbrico o coloristico), il quale è davvero libero (e in questo senso siamo di fronte davvero ad un’opera “free”) di suonare “melodicamente” come gli pare, senza cioè vincolo armonico di alcun genere, il che potrebbe persino far pensare i più sospettosi  di qualche problema del trombettista con l’armonia, cosa che peraltro non costituirebbe una rarità nel jazz.

Non vorrei deludere gli estimatori di questo genere di esibizioni, ma fare musica in questo modo per professionisti di questa levatura è un gioco da ragazzi e non richiede di affrontare particolari difficoltà, non manifestando tra l’altro alcuna delle tanto sbandierate “complessità strutturali” di cui si ciancia spesso come pre-requisito di presunta superiorità in ambito di  musiche improvvisate odierne rispetto a quelle del glorioso passato jazzistico. C’è molta più complessità nel jazz polifonico della Creole Jazz Band di King Oliver, nello swing per big band delle orchestre di Chick Webb e Gene Krupa, o ancora nel latin jazz di Eddie Palmieri (per lo più oggi nemmeno degnati di un ascolto, o giudicati frettolosamente come produttori di musiche “facili”), che in questo genere di proposte solo apparentemente più sofisticate. Il rischio che si corre è quello della pura illusione, dell’apparenza di assistere alla grandezza, ma la sostanza è molto diversa e i musicisti, quelli seri, ben lo sanno.
(Riccardo Facchi)

Comments are closed.