FREE FALL JAZZ

Se vi capita di avere a che fare con un interlocutore che si dichiara jazzista o un semplice appassionato del jazz, per verificare se lo è davvero, chiedetegli cosa è per lui il blues.

Se vi racconta, come spesso mi è capitato, che il blues è una forma musicale a 12 battute che presenta una tipica progressione armonica tonica-sottodominante-dominante (I-IV-V), in modalità “call and response” (domanda nelle prime 4 misure, risposta nelle successive 4 e conclusione nelle ultime), allora avete diritto di sospettare che del blues, come del jazz, ci abbia capito poco.

Che dico mai? Non c’è nulla di sbagliato in quanto detto e qui riportato: la struttura formale di base del blues è proprio quella. Perché mai dovreste dunque pensare che chi vi ha risposto in questo modo abbia compreso poco del blues e del jazz e conosca più in generale male la cultura musicale africano-americana?

Il motivo è molto semplice. Vi è un errore di impostazione (e di “traduzione”), nel quale si tradisce il modo di concepire ed analizzare la musica utilizzando gli schemi consolidati della cultura musicale europea ad una cultura “altra”, alla quale solo in parte si possono applicare in modo esaustivo certi criteri esclusivamente formali e strutturali. Così facendo si produce un inconsapevole “errore di traduzione” che non tiene conto di altri elementi decisivi che quegli schemi non sono in grado di rilevare, elementi che qui molto sinteticamente indico con il generico termine “espressivi”.

Si dirà (e più volte mi è stato detto…):  “Ma i contenuti espressivi in musica non si possono analizzare con criteri “oggettivi”. Vero, sono soggettivi è formalmente “inafferrabili”, dunque non ne devo tenere conto? In effetti molta musicologia nostrana (o presunta tale) diffida di parole come “espressività”, “feeling” quando si parla di jazz, perché considerati elementi arbitrari, legati cioè ad un sentire soggettivo del tutto variabile da persona a persona, dunque non analizzabili.

Presa per vera questa asserzione, ci si dovrebbe però rendere conto che stiamo adattando la musica che si ascolta ad uno schema di analisi, mentre in realtà occorrerebbe fare il viceversa, o meglio, bisognerebbe saperlo adattare alle peculiarità della cultura musicale alla quale lo si applica. E poi, da quando la Musica è un fatto meramente “oggettivo”? Mica stiamo parlando di scienze esatte.

Dove sta dunque l’inghippo? Il fatto è che il blues basilarmente NON E’ solo e semplicemente una forma musicale, perché, come è stato più volte affermato da grandi jazzisti (perlomeno quelli afro-americani) fondamentalmente è uno “stato d’animo” ben preciso, espresso tramite la musica e quel tipo di struttura formale, senza il quale esso perde molto del suo significato. Nella cultura musicale africano-americana gli elementi della “forza emotiva”  e del “feeling” sono sempre stati potentemente presenti, non si capisce come sia possibile pensare di escluderli senza commettere un evidente errore di valutazione. Non infrequentemente mi capita di trovare noioso il modo di suonare il blues da parte di quei jazzisti italiani (non me ne vogliano) che lo suonano pensandolo solo in termini strutturali. E si sente, eccome se si sente.

Senza voler un po’ ironicamente ricordare che durante l’autarchico ventennio fascista in Italia si riportavano certe cosiddette “musiche negroidi” come St. Louis Blues banalmente e risibilmente tradotte, (forse non a caso)  “Tristezza di San Luigi“, voglio qui far presente che un genio come Duke Ellington, appartenente senza dubbio di sorta alla comunità africano-americana (chi dunque meglio di lui poteva conoscere la propria cultura musicale?) nel suo capolavoro Black, Brown & Beige (che volutamente godeva del sottotitolo “a tone parallel to the history of the Negro in America.”), diede alla sezione intitolata “The Blues” una struttura formale che nulla aveva a che vedere con quella descritta del blues. Ci sarà stato un qualche motivo? Perché mai Ellington decise di rappresentare il blues, uno dei contributi principali e decisivi dell’afro-americano alla cultura musicale americana (e non solo), privandolo proprio della sua classica struttura formale? Evidentemente quest’ultima non era l’elemento decisivo a descriverlo in musica.

Una cosa analoga potrebbe venire alla mente con la canzone The Meaning Of The Blues, una composizione scritta nel 1957 da Bobby Troup e testo di Leah Worth. Anche in questo caso non siamo di fronte alla tipica struttura del blues, ma a quella tipica del song a 32-bar in tonalità minore che comunque riesce ad esprimere un certo “feeling”, in modalità stavolta di ballata.

L’ho sempre trovato un tema magnifico, che gode di diverse grandi versioni. Oggi, come in altre occasioni, prendo l’abitudine, quando mi è possibile, di proporre la versione originale assieme a quelle jazzistiche scelte. Prassi che a mio avviso dovrebbe sempre essere utilizzata quando si studia il lavoro prodotto in termini di improvvisazione e di “riscrittura” dai jazzisti. La versione di base è quella cantata da Julie London e prodotta proprio nell’anno di composizione, il 1957. Successivamente potrete ascoltare quella a mio giudizio capolavoro prodotta dal trio di Keith Jarrett e poi quella sassofonistica, non da molto meno, di Michael Brecker.
(Riccardo Facchi)

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