In seguito ai concerti italiani di Kamasi Washington della scorsa settimana si è sollevato un polverone impressionante, qui in Italia. Come spesso succede, sono nate due fazioni litigiose di pro e contro, guelfi e ghibellini, Coppi e Bartali. In mezzo, qualcuno che si è goduto il concerto, magari senza sapere molto del jazz in generale: indubbiamente fortunato, ancor più perché estraneo alla ridicola pugna. Per il resto, risate amare di fronte alla gazzarra appena trascorsa. In fin dei conti era preventivabile per l’esposizione di cui Washington ha goduto, e di questo avevamo già parlato con un certo anticipo. Non bisogna essere indovini o geni per questo, basta semplicemente conoscere un minimo le dinamiche della promozione. Tanto dal fronte degli appassionati di rock che occhieggiano al jazz (ma solo ed esclusivamente di avanguardia, sia mai) che da certa parte di appassionati jazzisti, la condanna è stata unanime: questo è un bluff, questo è passatismo, questa è musica inoffensiva, questa è musica inutile che non passerà alla storia, questo jazz che non è scomodo non può essere rilevane, questo e quell’altro, ma tutte stronzate. Figuriamoci poi quelli che aggiungono, belli tronfi e soddisfatti, “Sun Ra era meglio”. Sun Ra? Ma che cavolo c’entra? Solo perché la truppa di Washington è numerosa e colorata?
In realtà questo riferimento dice molto, ma dell’osservatore più che dell’osservato. E si torna su un problema, quello di non voler guardare il jazz in quanto tale, ma solo dopo averlo passato a forza per i filtri dell’impostazione critica europea di stampo marxista, decrepita e del tutto fuori luogo, ma dura a morire: in quest’ottica demente, il jazz nasce come musica degli oppressi contro il sistema, e qualora non esprima un’aperto carattere sovversivo e antagonista, è “jazz sbagliato”. Cito un pezzo di Gianni Gualberto:
“Credo che per troppi anni gli europei abbiano letto il “jazz” come “volevano loro”, con un’autoreferenzialità di tipico segno eurocentrico che è giunta a indossare i panni dell’appropriazione indebita più neo-colonialista. La narrazione del jazz è diventata poco più di un’appendice – per quanto consistente – a un’emanazione claudicante dell’internazionalismo socialista. Con il supporto anche di taluni intellettuali del Terzo Mondo (più africani, ad esempio, che africano-americani), la storia del jazz è stata vista come una fase della lotta rivoluzionaria contro il dominio borghese e capitalistico: ciò che non rientrava in tale cornice andava accantonato o, peggio, ignorato. Il che ha comportato un’analisi largamente incompleta, carente soprattutto di un’accurata comprensione delle dinamiche socio-culturali americane e africano-americane e delle dinamiche socio-culturali fra tali entità. I complessi e ramificati rapporti fra le culture africane d’origine e quella africano-americana e quella bianca americana, altrettanto varia e ramificata, sono stati spesso trascurati: quanto nel jazz non permetteva una plausibile lettura “antagonista” veniva letto come un reperto deteriore o inquinante, corrotto dalla “commercializzazione” e dal cedimento di parte della comunità africano-americana all’integrazione forzata (alle condizioni dei bianchi) e alle logiche perverse del capitalismo.” (continua, assieme a molte altre cose, qui).
Il jazz questo spirito non l’ha proprio mai avuto; in un paio casi, vedi be-bop e free jazz, la forzatura critica e ideologica di cui sopra ha estrapolato gli elementi a favore di questa interpretazione e ne ha esclusi altri in maniera del tutto arbitraria e antistorica. Le stupidaggini figlie di tale atteggiamento, negli anni, si sono sprecate e si sprecano tutt’oggi, e il bersaglio odierno è proprio Kamasi Washington.
Possiamo trarre qualche conclusione spicciola. La prima è che qualsiasi critica che rimproveri, essenzialmente, a Washington di rispettare i principi estetici e culturali della musica e della cultura afroamericana (cioé LE SUE!) è del tutto fuori fuoco. Perché lo scopo della musica di ‘The Epic’ è una celebrazione, in chiave grandiosa e certo utopistica, con toni fra il musical e la messa, di tutti gli aspetti di una cultura, tanto nel jazz quanto nelle musiche popolari, che formano un continuum unico ed una memoria comunitaria condivisa. In detta cultura la rievocazione del passato, il “conversing with the elders” (per dirla con James Carter), la citazione, il dialogo con l’eredità storica, la rifunzionalizzazione di prassi consolidate, il confronto con le molteplici versioni del materiale di partenza nell’ottica dell’articolazione storica del medesimo, sono elementi fondanti. Usarli invece per attaccare l’autore e la sua musica, parlare di disonestà, intento rassicurante e compagnia bella, per di più con un odioso paternalismo, vuol dire veramente aver preso fischi per fiaschi e non aver capito un bel niente di questa musica. Sarebbe come attaccare un gruppo metal perché è troppo assordante. Quindi, che si critichi pure Kamasi Washington, ma non su queste basi. Anzi, quali basi? Simili osservazioni rivelano la più completa assenza delle basi minime.
(Negrodeath)