Dopo l’acclamazione quasi unanime dei due full-length usciti a nome Fire! Orchestra, il sassofonista norvegese Mats Gustafsson rispolvera la sigla Fire! per esibirsi nuovamente nel più ristretto e tradizionale formato del trio, accompagnato da Johan Berthling (basso) e Andreas Werliin (batteria). Pubblicato a tre anni dall’ultimo ‘Without Noticing’, ‘She Sleeps, She Sleeps’, come sempre edito dalla sua Rune Grammofon, ne rivela però crudelmente la disarmante debolezza e incompetenza nell’ambito strettamente jazzistico. A ben vedere, da sempre gli episodi più notevoli della sua discografia (non ultimi i dischi per la Fire! Orchestra) hanno più a che vedere con l’iconoclastia e con lo scardinamento della tradizione, perpetrato per mezzo di arditi crossover stilistici con rock, psichedelia, noise e musica sperimentale di sorta, piuttosto che con un’effettiva padronanza del linguaggio jazz in sé e per sé.
Non sorprende quindi che in un contesto meno radicale ed esotico come può essere il trio acustico (spogliato oltretutto di qualsiasi tipo di tastiere, chitarre elettriche ed elettronica che caratterizzavano ed esaltavano gli arrangiamenti degli ultimi album) ne emergano tutti i limiti tecnici. Gustafsson come improvvisatore ed esecutore non è granché: il suo stile allo strumento si riallaccia pesantemente ai cliché della scuola europea continentale, abusando di barriti, scronk e dissonanze ormai ampiamente digerite e addomesticate dalla tradizione jazz, e al contempo mancando della creatività melodica necessaria per riuscire a rendere dinamica e varia la sua musica.
L’assenza di un solista carismatico a guidare il gruppo pesa come un macigno per tutta la durata del disco, soprattutto per via della spiacevole sensazione di star ascoltando lo stesso fraseggio di sax per tutto il tempo. L’attenzione viene attirata semplicemente dal passo ritmico nerboruto dato dal basso e dalla batteria, di palese estrazione rock, che rendono più efficaci i brani giocando su tempi irregolari che più di una volta risultano ben più interessanti delle idee melodiche sviluppate da Gustafsson. Anche qui, in ogni caso, non vi è un totale controllo della materia jazz, e la prova la si ha non appena uno dei due si cimenta in qualche assolo (come quello di batteria su ‘She Bid a Meaningless Farewell’ o, peggio, quello di basso che apre l’ultima ‘She Penetrates the Distant Silence, Slowly’, cinque estenuanti minuti di note sparse nel silenzio e nel vuoto che non sembrano voler pervenire a un obiettivo ben preciso): l’impressione è quella di star ascoltando un gruppo che avendo ascoltato assoli dei rispettivi strumenti su classiche registrazioni jazz abbia provato ad emularle senza la giusta competenza e comprensione di tali fonti.
Nel caso migliore, la musica annoia; talvolta, il sentimento dominante è quello dell’imbarazzo.
(Ema)