È passato qualche giorno ormai. Due, tre, una settimana, un mese? Qui, al reparto di psichiatria intensiva, il tempo scorre inesorabile ma senza ritmo. I dottori mi suggeriscono di scrivere qualcosa. Dicono che mi farà bene. Una frase, un accenno… Ogni sforzo è vano. Ecco che appena inizio a ricordare qualcosa del festival, tutto sembra più bello e leggero, ma quando, guardandomi intorno allibito, scopro di non essere più tra la musica, le bancarelle e il lago, subito ritorno nello stato vegetativo in cui mi trovo da giorni. La sensazione è quella di avere uno Steinway sul petto. Credo però di aver fatto dei progressi. La terapia funziona… L’aver scritto “festival” senza cadere in un baratro di nichilismo cosmico è da considerarsi un gran successo. Dicono che se scrivo è meglio. Dicono che devo sforzarmi, dicono…
Erano circa le sei quando finì la Montreux Piano Solo Competition (scriverò della competition e della mia permanenza al festival in un secondo momento. I dottori dicono che è meglio cominciare con la causa principale del trauma). Sfrigolanti e profumate, sulla riva del lago sfilavano delle golose bancarelle. Così come il jazz, il menù offerto era un mix di più culture: paella, asado, sushi, thai mai, pie, bio, chapa chi e chapa là . OpThai per uno spiedino di pollo marinato e una birra. Il sole scaldava i piccoli scogli lacustri, perfetti per un pic-nic a pochi balzi dalla passerella che segue le rive fresche e cristalline del grande lago di Ginevra. Mi sarei mangiato un bove intero, ma, nonostante fossi solo uno spettatore, l’ansia del concerto cominciava a crescere, e con lei il buco nero che mi imponeva l’ansioso digiuno. Presi soltanto un’altra birra perché l’alcool rilassa le membra e apre le orecchie. Praticamente sorretto dalla folla, mi diressi verso il gran Auditorium Stravinski, centro nevralgico del Festival, e più precisamente al nuovissimo Jazz Club. Un buco schiacciato sotto la mole dell’auditorium, teatro della tanto bramata ACT Night in Montreux.
Toh, c’è già la fila per entrare. “Fuck that” penso fra me e me. Tronfio e impettito estraggo il mio cartellino rosa con stelline fucsia (degno del Gay Pride più selvaggio) e, ammiccando alla chilometrica coda (una decina al massimo), recito alla hostess, manco fossi Jomes Bond che ordina un Martini, quanto scritto sul mio pass: “Free Fall Jazz, Journaliste”. Taaaaac. Fischiettando ‘Man Alone’ entrai in cerca del posto.
Dicono che i ricordi si fanno più offuscati quando ci si avvicina al momento dello shock. Dicono che si fanno più nebbiosi, bui. Dicono. Ricordo una sala, non molto grande, dei tavoli rotondi in prima fila e un centinaio di sedie nella parte posteriore. Due pianoforti a coda e un Fender Rhodes (gli stessi strumenti del ‘Jazz At Berlin Philarmonic’,  ACT, 2012, live registrato a Berlino). Il mio posto (riservato ovviamente) è alla terza fila delle sedie, verso il centro. Non male. Non mi piace l’aria condizionata, ma quando cominciano a sudarti anche le unghie, il pinguino Delonghi te lo mangeresti. “A hot room” mi dirà Rantala il giorno dopo. Attorno a me ci sono posti vuoti. Non c’è il pienone in generale.
D’un tratto, le luci si abbassarono e sul palco salì un presentatore dalla camicia discutibile (c’è una corrente di pensiero, qui tra i dottori del centro psichiatrico, che sostiene che il mio trauma sia causato proprio da quella camicia): “Madames et mensier, je vuvon joje, avoulun trip tien, me rien vuluvulez jwes de… Iiro Rantala!”. Applausi di cortesia, qualche urletto. Iiro ringrazia, saluta, presenta… E, cari i miei dottori, credo che il mio delirio sia cominciato proprio qui.
- ‘Thinking About Misty’: composizione di Rantala, presente in ‘Lost Heros’ (ACT, 2011). Un viaggio, un ritmo allegro, ma che lascia spazio anche a un tocco di amarezza. Il tema si presenta subito ed evolve man mano che il pezzo va avanti. Di grande trasporto, senza troppi fronzoli o cervellotiche scale, se non per qualche penetrante accento veloce. Una serie di alti e bassi che salgono in un crescendo coinvolgente. Un bel dialogo.
- ‘Aria/Goldberg Variation No. 1′: “This is to celebrate one of the first jazz players… More than 300 years ago… Johann Sebastian Bach”. La folla sorride, forse senza capire. Ma al primo fraseggio, la metafora è chiara. L’improvvisazione è la chiave della composizione di Bach che Rantala ripropone alla perfezione, con qualche sfumatura personale. Sono molto legato alle variazioni di Goldberg. Solitamente, rivisitazioni, riarrangiamenti, rifacimenti e rigurgitamenti vari li rispedisco tutti al mittente. Quella di Rantala però, me la tengo bella stretta. Quasi come per giustificare la sua scherzosa provocazione (Bach come uno dei primi jazzisti della storia) sul finale sfumato di Aria, inserisce ‘All The Things You Are’.
- ‘Freedom‘: “I composed this song after I red ‘Freedom’ by Jonathan Franzen. I don’t if you know it… but… mh… well… it sounds like this”. Presenta così il suo prossimo pezzo sempre il pianista dalla chioma dorata. A tratti svensiano, conferma Rantala come il più “lineare” dei pianisti in scena, linearità che si mischia ad una grande tecnica e una sensibile improvvisazione. Il pezzo (eseguito con un asciugamano appoggiato sulle corde delle prime scale, per dargli un effetto “finger on string” più morbido, quasi come un carillon) ruota attorno ad un breve tema, sempre presente in altre tonalità e accenti, e che rientra deciso dopo brevi (ma sempre “melodiche”) improvvisazioni.
- Titolo non pervenuto: dopo una calorosa presentazione di Rantala (che s’improvvisa un simpatico show man), è il turno di Wollny, sconvolgente pianista dal fortissimo impatto, leader degli [em], già recensiti da Free Fall Jazz. Vuoi per l’emozione di risentirlo, vuoi perché Wollny parla più piano di un suggeritore professionista durante un compito in classe, non colsi il titolo. E non ci fu neanche il tempo di inventarselo. Il frenetico pianista tedesco, iniziò senza ulteriori preamboli. Beh, che dire: traumatico. Certamente non di facile ascolto, ma, se si riesce a seguirlo, concentrandosi, è capace di portarti lontano, punzecchiarti lo stomaco, sbatterti per terra e risollevarti. Molto, molto tecnicismo ma che, mixato alla sua immensa creatività , è capace di dare profonde emozioni. Un’estetica cupa, sinistra. Come lui stesso mi confesserà , alcune delle sue composizioni si ispirano ad alcuni film di Dario Argento, primo su tutti Suspiria. Nun fà ‘na piega, insomma…
- ‘Tears For Svensson’: la composizione che Rantala dedica al compianto Esjborn Svensson è un colpo al cuore. È  il primo “duo” della serata. Sul palco Wollny e Rantala, appunto. A pochi passi da me, Siggi Loch (patron di ACT, la label tedesca con cui gli EST, il gruppo di Svensson, hanno conquistato il panorama jazzistico internazionale), che prima seguiva i brani dondolando il capo, attento e divertito, ora è impassibile. Immobile. Sprofondato nelle tenebre di tristi ricordi, ma riportato a galla dalla grazia e dal desiderio di andare avanti che traspare tra le note di Rantala, sembra altrove. La signora Loch lancia un colpetto affettuoso al ginocchio del marito, così, senza guardarlo. Come per dire: “Hey, dai… forza…”. Un’armonia dolce  e drammatica, profonda come l’oceano che inghiottì il pianista svedese. Questa è ‘Tears For Svensson’. Al termine dell’esecuzione, mi lancio in un sentito applauso commosso.
C’è una piccola pausa, una decina di minuti. Il presentatore e la sua orribile camicia ritornano per annunciare l’entrata in scena di Leszek Możdżer. Ma prima, Siggi Loch è chiamato a spendere due parole. Sempre e comunque sorridente, si confessa da un lato felice di essere a Montreux con una serata dedicata ai suoi tre pianisti di punta, e dall’altro molto triste per la recente scomparsa di Clode Nobs (fondatore del festival), il quale, presente alla Berliner lo scorso anno proprio durante lo show di Wollny, Rantala e Możdżer (show che è diventato appunto il citato ‘Jazz At Berlin Philarmonic’), entusiasta, invitò Siggi al suo nuovissimo Jazz Club durante il festival. Le parole di Herr. Loch sono sincere e misurate. Con enfasi chiama sul palco Możdżer. I due si abbracciano e ricomincia lo spettacolo.
- ‘My Secret Love’: dalla prima nota si riconoscono subito altre e diversissime forme, estetiche e strutture. Leszek sembra sfiorare i tasti… leggerissimo. Come prima impressione, potrei dire che è una perfetta sintesi dei suoi due colleghi. Armonioso e strutturato prima, delirante e frenetico poi. ‘My Secret Love’ è un viaggio tra colori vivaci e leggerezze. Colgo un po’ di Chopin e non mi sbaglio: la composizione è basata su un arpeggio per mano destra del celebre compositore romantico, come spiegherà Leszek alla fine.
- ‘Svantetic’: il pezzo, composto da Krzysztof Komeda nel 1965 (probabilmente l’avrete sentito in qualche film di Polanski), viene eseguito da Możdżer al piano e Wollny al Fender Rhodes… No, scusate: da Wollny al piano e Możdżer al Rhodes… No, aspetta… Allungo il collo per vedere che succede: il circo. Senza smettere di suonare, i due si cambiano di posto in continuazione, tra un’improvvisazione e un’altra. È la prima volta che sento un Fender Rhodes dal vivo, e mi piace molto la sua morbidezza, che attutisce i deliri spigolosi di Wollny.
- ‘Suffering‘: “This is called suffering” annuncia Rantala e, con un accenno a Możdżer, rimasto per un duo con il finnico, i due cominciano a punzecchiare i tasti. Un crescendo velocissimo, a tratti frenetico, ma sempre armonioso. Le caratteristiche di uno sono complementari a quelle dell’altro. Sembrerebbe una composizione di Rantala, l’estetica è la sua: dolce, melodica e “lineare”. Siggi continua a seguire, gongolando a tempo di “accenti”. Al “tara-ta-tara-data-dadadadadamm” finale balza in piedi applaudendo sinceramente. Dopo di lui, la sala è in piedi per un standing ovation.
- ‘Armando’s Rumba’: nella composizione di Armando Anthony “Chick” Corea i tre si ritrovano sul palco insieme. C’è aria di gran finale. È un festa. Il ritmo incalzante e danzante, proprio della rumba, solleva e alleggerisce gli animi, mentre uno tiene tempo e motivo, gli altri scatenano il delirio di soli e improvvisazione, per poi ricollegarsi insieme precisamente al flusso afro-cubano. Le risate del pubblico si fanno insistenti. Apro gli occhi e vedo che anche in questo caso i tre che si scambiano di posto, battendo sulle corde per non far cessare la musica, per ritrovarsi tutti insieme sul pianoforte di sinistra. Un gran TA-DAM finale ci fa balzare in piedi a scatenare gli applausi!
- ‘All Blues’:Â dopo applausi e grida, il trio ci concede un bis. I soliti tre matti che si divertono scambiandosi i posti… Nella composizione di Miles Davis ci comunicano un gran divertimento. Un bis di cortesia che ci lascia tutti col sorriso, e ampiamente soddisfatti.
Le luci si riaccendo. Il pubblico è ancora in piedi ad applaudire. Piano piano i clap scemano nel silenzio e in pochi ci dirigiamo verso il palco, dove i tre sono disponibili per autografi, qualche scatto e vendita dischi.
Mi metto in fila, per ultimo. I dischi in vendita finiscono, poco male, ho i miei. Ora i ricordi si fanno molto bui. “Hi Mosscereket” farfuglio intimorito, porgendo ‘Komeda’ (ACT, 2012) a Mozderk per una firma. Rantala mi stringe la mano amichevolmente (ci siamo già visti nel pomeriggio alla Piano Competition). Fradicio di sudore, mi saluta altrettanto amichevolmente e mi dà appuntamento alla finale della competizione di cui è il presidente.
Ho già parlato del mio primo incontro con Wollny lo scorso Aprile, ma mai avrei pensato a: “Hey Martino! Nice to see you here!”. Buio, dottore… Buio totale.
(Martino A.L. Spreafico)