FREE FALL JAZZ

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Pochi giorni fa Herbie Hancock ha compiuto 75 anni. Ci siamo scordati di festeggiare, purtroppo – dovevamo ristrutturare un’ala della FFJ Mansion, sapete, però Herbie ci ha detto “tranqui raga, vi mando questo bel filmato del ’74, trasmesso dalla tv giapponese Music Air, per allietare i lavori!” e quindi eccolo pure per voialtri. Funky stuff!


Ci siamo occupati da poco dell’ultimo, strepitoso album di Karl Denson e dei suoi Tiny Universe, quindi battiamo il ferro finché è caldo: ecco una clamorosa esibizione dal vivo, registrata al The Blockley di Philadelphia solo pochi mesi fa, per due ore di rovente jazz funk.


L’opera del DJ Amir Abdullah è encomiabile: da vero appassionato si è assicurato i diritti sul catalogo della Strata Records, label di culto fondata negli anni ’70 a Detroit da Kenny Cox e durata solo una manciata dischi, riesumando il marchio e ristampandone il materiale. Materiale su cui peraltro si è fantasticato per anni: molti dischi pubblicizzati come “in uscita” sul retro di quelle copertine in realtà poi non hanno fatto in tempo ad arrivare nei negozi, e il bello è che Abdullah, grazie alla disponibilissima vedova di Cox, è in possesso anche dei master inediti, che pure saranno oggetto di riesumazione.

Primo tra di essi è ‘Mirror Mirror’ dell’altosassofonista Sam Sanders, uno che a livello locale era una piccola istituzione, con migliaia di concerti macinati sui palchi della “motor city”, esperienze al fianco di leggende come Sonny Stitt, Rashaan Roland Kirk e Milt Jackson, ma anche session man con Stevie Wonder. (Continua a leggere)

Non pago del recente, ottimo ritorno dei Greyboy All Stars, l’altosassofonista californiano Karl Denson anzichè adagiarsi rilancia con un nuovo lavoro in proprio. E per fortuna, aggiungiamo noi: ‘New Ammo’ è clamoroso, sin d’ora corre a prenotarsi un posto in prima fila tra gli ascolti più terremotanti dell’anno appena iniziato. Chi è familiare con i precedenti lavori a nome Tiny Universe si aspetti pure “more of the same”, seppur con un impatto che prima d’oggi non è mai stato così duro. A chi si approccia alla materia per la prima volta basti sapere che per questa uscita si tratta di una formazione solidissima, con piano Rhodes, chitarra elettrica e batteria che accompagnano una frontline di 4 fiati che vede il contralto di Denson integrarsi con tromba, trombone e baritono. (Continua a leggere)

Lo scorso 26 Aprile, in quello che ho personalmente rinominato Funky Friday, esce ‘Teamwork’, l’ultimo progetto della Funk Unit di Nils Landgren. Dopo ‘Funk For Life’ (2010), ‘Licence To Funk’ (2007), ‘Funky ABBA’ (2004), ‘Fonk Da World’ (2001) e il mitico ‘Paint It Blue’ (1996), il trombettista svedese  richiama a sé una unit d’altissimo livello, per far “pompare nelle casse” un po’ di quel funk jazz esplosivo che ha tanto segnato il cammino del Red Horn svedese (concedendosi anche dei progetti molto diversi tra loro), tanto da produrre per ACT i giovani Mo’ Blow, eredi legittimi della Funk Unit.

Nils Landgren (trombone & vocals), Magnum Coltrane Price (bass & vocals), Magnus Lindgren (woodwinds & vocals), Jonas Wall (woodwinds & vocals) Sebastian Studnitzky (keyboards & trumpet), Andy Pfeiler (guitar & vocals), Robert Ikiz (drums) sono la Funk Unit che la stessa ACT (invero non particolarmente avvezza alle sonorità funky, accezzion fatta per la Funk Unit e i Mo’Blow, appunto) definisce così: “this might well be the best Funk Unit that Nils Landgren has had gathered around him since 2010: technically outstanding, this is a group of team players who combine well with a great groove connection”. (Continua a leggere)

Autrice di due irresistibili album negli anni ’90 (il primo in compagnia del grande trombonista Fred Wesley, di scuola James Brown/George Clinton), la Greyboy Allstars nacque su input di (appunto) DJ Greyboy, un bravo ragazzo innamorato del funk e del soul che quando metteva i dischi nei locali della bay area faceva tremare le pareti a botte di bassi pulsanti. Una volta assemblata la formazione, egli produsse il primo album e si limitò a sporadiche collaborazioni negli episodi successivi (tra cui l’ottimo ritorno ‘What Happened To Television?’, arrivato nel 2007 dopo ben dieci anni di pausa), lasciando il gruppo libero di camminare sulle proprie gambe con un sound dal tiro micidiale, che si abbeverava  soprattutto a jazz funk e soul jazz. E da soli ancora oggi camminano benissimo, d’altronde si tratta di musicisti dalla comprovata esperienza: il sax di Karl Denson (che presta anche la voce, negli sporadici momenti cantati) tira la carretta, coadiuvato da altri ottimi figuri quali il chitarrista/cantante Michael Andrews (proprio quello dell’odiosa cover dei Tears For Fears nella colonna sonora di Donnie Darko. Qui però si “copre” con lo pseudonimo Elgin Park) e il tastierista Robert Walter (con una lista di referenze che va da Gary Bartz a Skerik dei Critters Buggin); completano la formazione il bassista Chris Stillwell e il nuovo batterista Aaron Redfield, che in realtà, a sentire certi ritmi quando pestano duro, sembrano suonare insieme da sempre. (Continua a leggere)

Tutto sommato è facile parlare di Prince: tiri fuori uno dei tanti dischi belli e via in quarta con elogi e superlativi. Una produzione multiforme e composita la sua, che tra funk, rock, soul e r&b di tanto in tanto porta a galla anche qualche legame con la musica che trattiamo su queste pagine: inevitabile, verrebbe da pensare, visto che suo padre, John L. Nelson, era un pianista jazz e, da buon classe 1915, alla guida del Prince Rogers Trio si è goduto tutta l’epoca d’oro del genere, pur senza mai riuscire a ritagliarsi un posto davvero importante, nemmeno in seconda fila.

La prima volta che il principe di Minneapolis incrocia seriamente la strada del jazz, le circostanze sono abbastanza clamorose e lo vedono in coppia nientemeno che con Miles Davis. Il pezzo si chiama ‘Can I Play With U’: dovrebbe finire su quello che diventerà il non esattamente eccelso ‘Tutu’, ma viene escluso dalla scaletta finale. È un ottimo, vigoroso electro-funk arricchito con naturalezza dalla tromba di Miles, e non avrebbe sfigurato sul di poco successivo ‘Sign O’ The Times’: a ragione, Prince lo ritiene non in linea con il blocco di pezzi preparati da Marcus Miller per il disco di Davis e chiede la sua esclusione. Vedrà la luce solo su un popolare bootleg intitolato ‘Crucial’, ma avrebbe meritato sorte migliore. (Continua a leggere)

Una rapida scorsa alla tracklist (‘Robotic Prostitute In Heat’, ‘Meat Flute (Tullyo De Syncopo)’) e il pensiero corre ai micidiali Testadeporcu, efferato duo bolognese tra noise e jazzcore. A parte “l’affinità spirituale” nella scelta dei titoli e l’amore per certo free jazz c’è però poco che accomuna questi ultimi ai fiorentini Atomik Clocks, trio (strumentale) basso, batteria e sax fresco d’esordio dopo un paio di demo. La loro musica si sviluppa semmai su due binari più o meno distinti: da una parte i pezzi basati su nervose ritmiche math rock e duri sassofoni free, dall’altra ritmi funk e l’ancia che cerca di seguire linee più melodiche. A far da collante e rendere il tutto omogeneo ci pensa il basso incontenibile di Francesco Li Puma, a tratti figlio del miglior Les Claypool. Questi sono gli elementi di base, poi diventa interessante notare come i tre ragazzi si divertano a smontarli e ricombinarli a proprio piacimento, portando le due “anime” di cui sopra a lambirsi ed incrociarsi (menzione d’onore per la micidiale ‘Deuterio’, che prova a sintetizzare tutte le sfaccettature in meno di tre minuti). Un esordio convincente, che rivela capacità tecniche notevolissime al servizio di una scrittura intricata ma tutto sommato mai troppo cervellotica. E l’attitudine nient’affatto seriosa è la ciliegina sulla torta: bene così. Curiosità infine di vederli dal vivo, potenzialmente fortissimi.

Il disco è stato pubblicato lo scorso anno in download digitale (lo trovate qui), mentre proprio in questi giorni la Have You Said Midi ne ha prodotto anche una versione fisica (in CD-R): a voi la scelta. (Nico Toscani)

Qualcuno forse ricorderà The Apples per una versione di ‘Killing In The Name’ dei RATM in grado di resuscitare i morti, ma sarebbe ingiusto confinarli solo a quello: la proposta del collettivo di Tel Aviv (!) andrebbe di certo annoverata tra le cose più coinvolgenti ascoltate nell’ultima decade.

Le radici musicali affondano nel più vigoroso funk jazz anni ’70: basta lasciar partire il disco e ‘Preserve’ lo dimostra, trascinandoci (a scelta) in un rocambolesco inseguimento di Starsky & Hutch o in un temibile faccia a faccia con Maurizio Merli che ci rincorre verso la funicolare incazzato, ma con lo sguardo impassibile. Loro, invece, di stare fermi non ne vogliono sapere, ed è proprio questa la chiave: è musica fisica, impossibile restare inermi senza accompagnarla neanche col semplice battito di un piedino. Il tutto ovviamente viene rinfrescato quanto basta con loop e scratching tanto al chilo, ma, soprattutto, con una scelta di suoni (loud, direbbero gli americani) che non lascia prigionieri: resta grande la curiosità di vederli dal vivo, potenzialmente una forza della natura. (Continua a leggere)

Da quando abbiamo aperto i battenti, su queste pagine si è parlato di Bill Cosby praticamente in tutte le salse. Nonostante la sovraesposizione, credetemi se dico che fino adesso non abbiamo ancora fatto luce sul motivo che già da solo potrebbe giustificare la presenza dell’entertainer americano in questa sede: ‘Badfoot Brown & The Bunions Bradford Funeral & Marching Band’. Nome improbabile, ma non è un complesso: si tratta in realtà del titolo di un disco originariamente stampato nel 1971 dalla UNI (sottoetichetta della MCA), prima prova strettamente musicale del futuro Dottor Robinson dopo una manciata di album spoken word comici e un paio di dischi in cui cantava successi rhythm’n’blues dai testi riveduti e corretti.

Bill Cosby suona il Rhodes ed è autore di tutte le musiche, ma l’uscita, a quarant’anni di distanza, resta ancora avvolta da una piccola cappa di mistero: nell’album non appare alcun elenco dei credits, dunque è non è dato sapere con precisione chi altri abbia suonato cosa. Voci più o meno attendibili confermano la presenza di Bobby Hayes al basso e del grande Big Black (no, non c’entra Steve Albini) alle percussioni, ma sul resto l’enigma è totale. (Continua a leggere)